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DOPO LA STRAGE

Copti d'Egitto la Chiesa dei martiri

«Ci chiamano Chiesa dei martiri perché fin dall’inizio del cristianesimo la Chiesa dell’Egitto ha offerto i suoi figli come martiri», dice Tawadros II nell'omelia del funerale delle vittime dell'ultima strage terrorista. E il presidente Al Sisi promette una dura politica contro il terrorismo. Ma il quadro è tutt'altro che chiaro.

Libertà religiosa 13_12_2016
Tawadros II

«Ci chiamano Chiesa dei martiri perché fin dall’inizio del cristianesimo la Chiesa dell’Egitto ha offerto i suoi figli come martiri». Di fronte alle 23 bare allineate per i funerali le parole di Tawadros II - il papa dei copti - la dicono lunga sul clima nel quale ieri i cristiani del Cairo hanno dato l'ultimo saluto alle vittime della strage di domenica alla chiesa dei santi Pietro e Paolo ad Abbassiya, dentro al complesso della cattedrale di San Marco, cuore della comunità copta. Ancora morti da seppellire; e anche con un numero molto alto di donne e bambini. Per la terza volta in sei anni, poi, l'attentato contro una chiesa è arrivato proprio nell'imminenza del Natale (che i copti celebrano il 7 gennaio). Eppure in questo dicembre 2016 - se possibile - lo shock è ancora più grande per i cristiani egiziani. Per via del luogo in cui sono stati colpiti, il complesso dove vive lo stesso papa Tawadros, che in teoria dovrebbe essere il loro luogo più protetto. E soprattutto per la constatazione che anche sotto al Sisi - il presidente delle visite alla cattedrale di San Marco nella notte di Natale e dei discorsi ad al Azhar sulla lotta all'estremismo - la musica macabra dei seminatori di morte non cambia.

Anche per questo domenica la rabbia si è fatta sentire intorno ad Abbassiya: ci sono state contestazioni contro il governo e le forze di sicurezza, accusate di aver lasciato i copti ancora una volta indifesi. È probabile che ci fosse anche qualche gruppo che provava a cavalcare il malcontento, ma certo la frustrazione era tanta con molti fedeli rimasti in piazza fino a tarda sera a pregare per le vittime e insieme a dare voce alla loro protesta.

Il presidente Al Sisi ha risposto proclamando tre giorni di lutto nazionale e tributando ieri alle vittime anche un funerale di Stato, tenuto presso la tomba del milite ignoto nel quartiere di Sadr City. Funerale blindatissimo, riservato ai parenti con apposito lasciapassare, per motivi di sicurezza (ma verosimilmente anche per tenere lontane le contestazioni). Ed è stato lì che al Sisi ha annunciato i primi risultati delle indagini su un attentato per il quale non esistono ancora rivendicazioni ufficiali (e rispetto al quale - a parole - anche alcuni gruppi islamisti hanno preso le distanze). Il presidente ha annunciato che sarebbe stato identificato il corpo di un attentatore suicida che si sarebbe fatto esplodere dentro alla chiesa insieme ai fedeli: si tratterebbe di un ventiduenne proveniente dalla città di Fayyum, un'oasi sul Nilo a un centinaio di chilometri a sud del Cairo, considerata una roccaforte dei Fratelli musulmani. Al Sisi ha inoltre aggiunto che sono state arrestate quattro persone legate a Mahmoud Shafik Mohamed Mostafa, il giovane attentatore suicida: sarebbero anch'esse implicate nella strage.

Sono evidentemente notizie da prendere con cautela: non ci vuole molto a capire che ieri il presidente egiziano aveva fortemente bisogno di una notizia del genere da dare al funerale per attribuire un minimo di credibilità alla promessa che l'Egitto saprà reagire con forza alla strage. E va anche aggiunto che nel suo discorso al Sisi ha anche chiesto al governo e al parlamento di «fare di più» per permettere la lotta al terrorismo senza norme che intralcino (il che - detto in una realtà come quella del Cairo - fa pensare a un ulteriore giro di vite in vista).

Ma, al di là di tutto questo e ammesso che quelli identificati siano i veri autori materiali della strage, restano le domande di fondo: perché ora? E poi: come hanno fatto ad agire in quel modo in una zona sensibile del Cairo? Tanto più che nelle ore precedenti c'era già stato un altro attentato clamoroso con sei poliziotti uccisi in un altro luogo che in teoria dovrebbe essere tra i più controllati in Egitto: la strada che conduce alle piramidi di Giza.

Che cosa sta succedendo, allora, in Egitto? C'è una concomitanza quanto meno sospetta che fa riflettere. Proprio nelle ultime settimane al Sisi si è spinto molto avanti nel riavvicinamento con Bashar al Assad, si è parlato addirittura di militari egiziani che sarebbero già segretamente in Siria. Più in generale è sempre più evidente il canale riaperto dal Cairo con Mosca: l'ultima conferma è venuta proprio ieri con l'annuncio da parte dell'Eni della cessione alla Rosnef - il gigante energetico russo - del 30% dei diritti su Zohr, l'enorme giacimento di gas naturale scoperto l'anno scorso nel Mediterraneo. Si tratta di una mossa in cui è difficile credere che le scelte geopolitiche del Cairo non c'entrino nulla. E tutto questo avviene mentre i rapporti di al Sisi con i sauditi e i Paesi del Golfo, dopo l'iniziale sostegno all'indomani della deposizione di Morsi, sono oggi a un minimo storico.

L'altra sera un commentatore egiziano su Twitter faceva notare che al Cairo i copti sono come il canarino nelle miniere: quando comincia a mancare l'ossigeno loro sono sempre i primi ad accorgersene. Nonostante il pugno di ferro di al Sisi l'Egitto resta un Paese in bilico, con un'intera area come il Sinai che resta fuori controllo, presenze di gruppi affiliati allo Stato islamico e infiltrazioni fondamentaliste anche nei settori più insospettabili. Un terreno ideale dove cercare rivincite per chi oggi sta perdendo la battaglia in Siria e in Iraq.