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LA SENTENZA

Convivenza come matrimonio, il passo falso dei giudici

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Secondo la Corte di Cassazione l'ex moglie ha diritto all'assegno di mantenimento conteggiando anche gli anni di convivenza. Una sentenza irragionevole che estende una garanzia giuridica per una realtà invisibile agli occhi del diritto.

Famiglia 20_12_2023

I giornali titolano «Storica sentenza della Cassazione», ma in realtà la Cassazione ha solo fotografato ciò che l’evoluzione (rectius: l’involuzione) del diritto già da tempo indicava. Si parla di assegno divorzile che deve tenere in conto anche degli anni di convivenza prematrimoniale.

Una coppia aveva convissuto dal 1996 al 2003, periodo in cui era nato anche un figlio, e poi dal 2003 al 2010 era rimasta sposata. Infine il divorzio. La donna chiedeva al Tribunale di Bologna che l’assegno divorzile conteggiasse anche i suoi sacrifici per il figlio e l’allora compagno durante la convivenza, sacrifici che ad esempio le avevano impedito di lavorare. Una rinuncia quindi che doveva essere compensata nell’assegno, che ha valore non solo assistenziale, ma anche perequativo-compensativo.

La Corte di Appello di Bologna non aveva accolto le doglianze della donna sostenendo che quest’ultima aveva rinunciato a lavorare «per l’agiatezza che proveniva dalla sua famiglia d’origine, non per essersi dedicata interamente alla cura del marito e del figlio. Non risultava dagli atti che ella avesse sacrificato aspirazioni personali e si fosse dedicata soltanto alla famiglia, rinunciando ad affermarsi nel mondo del lavoro».

Ma c’era un altro motivo per non dare soddisfazione alla donna: l’assegno di divorzio interessa il periodo matrimoniale, non quello anteriore. I giudici infatti hanno dichiarato che per il calcolo dell’assegno si debba esclusivamente aver «riguardo al periodo di durata legale del matrimonio, dal novembre 2003 al 2010, non anche al periodo anteriore, dal 1996, di convivenza prematrimoniale perché gli obblighi giuridici nascono dal matrimonio e non dalla convivenza».

La donna allora fa ricorso in Cassazione e questa, a sezione unite, ribalta la decisione dell’Appello affermando che il tempo precedente al matrimonio ha il medesimo peso giuridico di quello posteriore, parificando così convivenza e matrimonio. «La convivenza prematrimoniale è ormai un fenomeno di costume sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca un accresciuto riconoscimento – nei dati statistici e nella percezione delle persone – dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali», scrivono gli ermellini.

Il matrimonio, per il diritto, è un consorzio di tutta una vita volto all’aiuto reciproco e alla procreazione, fondata su doveri e diritti reciproci. Ora queste caratteristiche le possiamo trovare da tempo anche nella convivenza, con una sostanziale differenza: nella convivenza non esiste un momento formale in cui si dichiara la volontà di vivere per sempre con una sola persona e in cui ci si assume i relativi doveri di questa unione. Ma è quel momento formale che dà vita al matrimonio, sia sotto il profilo naturale, sia sotto quello sacramentale, sia sotto quello giuridico. Ai giudici della Cassazione questa differenza essenziale appare invece accessoria, un grazioso orpello.

A loro importa il dato sociologico: la convivenza acquista valore giuridico quando ha «i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase “di fatto” di quella medesima unione e la fase “giuridica”». Convivenza e matrimonio quindi pari sono e appaiono come un unico continuum. A motivo di questa uguaglianza ne discende logicamente che si debba tenere conto anche della convivenza per indicare l’importo dell’assegno divorzile.

Ma dato che questo assegno riguarda il momento del matrimonio –  si chiama assegno divorzile e il divorzio interessa il matrimonio – è necessario che i vari sacrifici e rinunce fatte durante la convivenza abbiano avuto una conseguenza nel matrimonio. La causa quindi può rinvenirsi anche nella convivenza, ma gli effetti devono prodursi nel matrimonio: il giudice quindi deve tenere in conto le «scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio».

In modo ancor più esplicito si appunta che «non si tratta, quindi di introdurre una, non consentita, “anticipazione” dell’insorgenza dei fatti costitutivi dell’assegno divorzile, in quanto essi si collocano soltanto dopo il matrimonio, che rappresenta, per l’appunto, il fatto generatore dell’assegno divorzile, ma di consentire che il giudice, nella verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno al coniuge economicamente più debole, nell’ambito della solidarietà post coniugale, tenga conto anche delle scelte compiute dalla stessa coppia durante la convivenza prematrimoniale, quando emerga una relazione di continuità tra la fase “di fatto” di quella medesima unione, nella quale proprio quelle scelte siano state fatte, e la fase “giuridica” del vincolo matrimoniale»

In breve gli scompensi incorsi durante la convivenza e perduranti il matrimonio devono essere compensati. Se la convivenza non avesse avuto agli occhi dei giudici della Cassazione nessun valore giuridico e se questa non fosse collegata strettamente con il successivo matrimonio, non si poteva giungere a questa sentenza.

Da un punto di vista giuridico la sentenza non regge almeno per un motivo. L’assegno divorzile riguarda il divorzio e il divorzio riguarda il matrimonio. Tutto ciò che è successo prima tra la coppia non deve avere rilievo giuridico soprattutto perché è stata la coppia stessa che ha così deciso nel momento in cui ha dato vita ad una coppia di fatto e non ad una coppia sposata. Il rilievo si fa ancor più marcato se poniamo mente alla legge Cirinnà (76/2016) che non ha solo disciplinato le unioni civili omosessuali, ma anche la convivenza. I conviventi grazie a quella norma (ingiusta) possono regolare giuridicamente la loro relazione. La coppia bolognese non ha voluto nemmeno ricorrere a questo istituto e quindi è chiara la sua volontà di aver rinunciato in quel periodo a qualsiasi tutela giuridica. Quando hanno voluto essere una coppia anche per lo Stato ecco che si sono sposati. Prima del matrimonio quella relazione era esistente dal punto di vista sociale, ma inesistente dal punto di vista giuridico.

Dunque è irragionevole estendere una garanzia giuridica per una realtà invisibile agli occhi del diritto. È come pretendere di conteggiare, ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto, anche il tempo in cui il lavoratore prestava la sua opera in nero, prima che venisse assunto regolarmente.

Sotto la prospettiva giuridica la convivenza, proprio perché non si assume nessun onere in modo formale e pubblico, è solo una relazione affettiva su cui giustamente il diritto nulla deve dire perché affare privatissimo. Così la Corte Costituzionale: «Diversamente dal rapporto coniugale, la convivenza more uxorio è fondata esclusivamente sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile» (Sentenza 461/2000).

Detto ciò, questa sentenza è figlia del nostro tempo. Nel percepito comune convivenza e matrimonio pari sono. Il matrimonio non aggiungerebbe nulla nella vita di una coppia che sta già insieme da anni e a volte ha messo al mondo anche dei figli. Il matrimonio sarebbe solo un accessorio formale, un mero formalismo, un momento di festa con gli amici però incapace di suggellare un vero salto di qualità. Il diritto, con la legge Cirinnà, aveva già fatto suo questo sentimento della coscienza collettiva ammantando delle vesti giuridiche la convivenza. La sentenza della Cassazione fa un passo ulteriore ma nella stessa direzione e cristallizza una delle tante conclusioni che derivano dalla equazione “convivenza = matrimonio”.

Questa sentenza è uno dei sintomi più evidenti di come la nostra società sia liquida: togliendo l’aspetto formale – che nel matrimonio è aspetto essenziale perché fa venire ad esistenza il rapporto di coniugio – si tolgono anche le differenze specifiche tra le varie forme di relazioni e tutto si omologa. Così una coppia di fatto ha la medesima dignità morale e giuridica di una coppia coniugata perché ciò che rileva è il fatto di vivere insieme, di aver dei figli, di assumersi reciprocamente delle responsabilità e di rivendicare pretese, non la volontà formale di unirsi per sempre con una sola persona al fine di amarla e di amare l’eventuale prole.