Contro papato e morale Küng resta in voga nella Chiesa
Pare incredibile che sui libri del teologo a cui la Santa Sede vietò di insegnare e che disprezzò Giovanni Paolo II si siano formate generazioni di seminaristi o che dall’account della Pontificia Accademia per la Vita si leggano tweet così: «Scompare una grande figura nella teologia le cui idee devono fare riflettere la Chiesa». Eppure il suo pensiero eretico è più condiviso di quanto si creda, basta leggere qui.
All’età di 93 anni, nella sua casa di Tubinga, è morto Hans Küng, il teologo a cui la Santa Sede aveva tolto la licenza di insegnante ecclesiastico (anche solo per saggiarne lo stile, è ancora interessante leggere la delicata nota della Congregazione per la dottrina della fede), ma che per il suo dissenso è stato per decenni l’idolo mediatico del cosiddetto “movimento di riforma cattolico”. La Nuova Bussola se n’è occupata recentemente con un articolo di Stefano Fontana, ma può essere utile riflettere ancora su quello che il filosofo cattolico Emanuele Samek Lodovici identificò come caso emblematico di «divismo teologico».
Più che in tante altre sue opere (si pensi a Infallibile? Una domanda, in cui Küng ha contestato il dogma dell’infallibilità papale) quella in cui è venuta maggiormente a galla l’acredine nutrita per la Chiesa di Roma è Perché un’etica mondiale. Un libro-intervista del 2002 a cura del giornalista tedesco Jürgen Hoeren tradotto in italiano nel 2004 dalla Queriniana, storica editrice cattolica bresciana.
Il papato: da roccia a macigno. Forse perché la forma dell’intervista è più libera, sta di fatto che in Perché un’etica mondiale, Küng si è sentito libero di squadernare apertamente, e più chiaramente che altrove, la sua sistematica contestazione al magistero della Chiesa su temi quali aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, sacerdozio delle donne, infallibilità del Papa, culto di Maria. Rispondendo alle domande di Jürgen Hoeren lo spirito “antiromano” di Küng si fa letteralmente incontenibile, arrivando ad imputare direttamente alle encicliche papali l’aumento dello spirito antireligioso della società: «Oggi in effetti non c’è un sentimento antireligioso come un tempo, se esso non viene ridestato artificialmente dalle encicliche papali». Oppure arrivando – l’audacia di certo non gli mancava - ad indicare nel papato il vero freno all’unità: «Ciò che viene avvertito come discriminante è la struttura ufficiale autoritaria della Chiesa cattolica. Il papato nella sua attuale costituzione continua a rappresentare il grande ostacolo: non una roccia dell’unità, ma il grande macigno sulla via dell’unità».
All’Accademia per la Vita si rimpiange Küng. Sembra incredibile pensare che sui libri di Hans Küng si siano formate generazioni di seminaristi, o anche soltanto che ieri, dall’account ufficiale della Pontificia Accademia per la Vita, potevano leggersi tweet come questo: «Scompare davvero una grande figura nella teologia dell’ultimo secolo, le cui idee e analisi devono fare sempre riflettere la Chiesa, le Chiese, la società, la cultura». Non può negarsi che le idee del teologo svizzero debbano “far riflettere”, il punto su cui decidersi è se per accettarle oppure per respingerle. Procediamo. Nel libro-intervista, dopo aver ribadito che «nelle questioni dell’ecumenismo il papato è il grande ostacolo», Küng aggiunge che la Curia romana ha impedito un’infinità di cose, «in primo luogo, che il concilio potesse funzionare come propriamente si voleva, e potesse giungere a decisioni cariche di futuro, non solo in materia di comunione eucaristica, ma anche in questioni come la contraccezione o il celibato».
Se quelli che Küng elenca sono chiaramente i suoi “desiderata” (le «decisioni cariche di futuro»), quando, immediatamente dopo, Küng scrive che «abbiamo bisogno di uno spostamento del potere da questo sovrano assoluto di Roma alle Conferenze episcopali nazionali», non è difficile intuire a cosa servirebbe l’auspicata maggior collegialità, di cui si dibatte da anni e a cui è dedicato il Sinodo indetto per il 2022. Sta qui, forse, la preziosità di un’indagine sulla sua opera: evitare che certe idee si realizzino. È difficile non collegare, ad esempio, la reazione di una grossa parte del clero tedesco al responsum in tema di benedizioni delle unioni omosessuali all’agenda politico-teologica di Hans Küng: la rivolta organizzata a cui si è assistito in queste settimane, in un cortocircuito autoevidente (e imbarazzante), è figlia di quel pensiero kunghiano di cui oggi Alberto Melloni e mons. Paglia (ma anche i dehoniani di Settimana News, oltre, ovviamente, alla totalità dei giornali laici) tessono le lodi.
Per Pio XII e Giovanni Paolo II solo disprezzo. L’attacco al papato di Küng non è stato generalizzato, ma ciò rende solo più stupefacente la sua posizione. Su Giovanni XXIII la sua opinione è infatti assai più benevola rispetto a quella dei papi successivi. Se quindi «nel caso dell’Olocausto, Pio XII ha fallito» poiché «per lui gli ebrei erano del tutto privi di importanza» - così scrive Küng con una violenza inaudita -, e se San Giovanni Paolo II «è corresponsabile dell’esplosione demografica e [..] della conseguente miseria soprattutto dell’Africa e dell’America latina» (un linguaggio che mons. Bruno Forte nell’intervista a Vatican Insider di ieri derubrica a innocenti «punzecchiature costruttive» fatte per «realizzare lo spirito del Concilio Vaticano II»), Papa Roncalli, invece, avrebbe manifestato tutt’altro paradigma ecclesiale. Tutta da leggere, nella sua ingenua superficialità, è la motivazione di questa disparità di trattamento. Quando Jürgen Hoeren chiede a Küng come mai il duomo di Basilea fosse stracolmo per la visita del Dalai Lama benché egli «abbia detto cose semplicissime e ovvie: siate tolleranti, l’interno è più importante dell’esterno, l’essere è più importante dell’apparire», Küng risponde col solito riflesso (pavloviano) antiromano: «Dietro al papa molti vedono soltanto il Vaticano, l’enorme potenza della chiesa cattolica. Un potente e autoritario principe della chiesa [..] prende una posizione totalmente diversa da quella di un povero, impotente monaco religioso che predica semplicemente la compassione e l’amore. Ma se lei confronta Papa Giovanni XXIII con il Dalai Lama allora le differenze non sono più così grandi. In Giovanni XXIII la maggior parte degli uomini aveva dimenticato che egli era il capo di questo vaticano».
«Nessuno è bravo come me». L’ego straripante del teologo svizzero (lo stesso che – in una puntata di Otto e mezzo, indifferente allo sguardo imbarazzato di Socci e Ferrara - lo portava a equiparare la sharia islamica al diritto canonico) ha probabilmente contribuito ad accecare non di poco la sua percezione dei fenomeni. Spesso è sembrato che Küng si fosse sentito investito di una missione, e il fatto che si avvertisse come incaricato di un mandato imprescindibile - perché l’unico in grado di compierlo - è emerso chiaramente in molti passaggi di Perché un’etica mondiale. Al giornalista che gli chiede se è sempre stato un «combattente solitario», il teologo risponde così: «Combattente solitario io divenni là dove vi venivo costretto. [..] Ho avuto l’impressione che dopo l’Enciclica Humanae vitae del 1968, dopo il no pontificio alla regolazione “artificiale” delle nascite, qualcuno dovesse affrontare il problema dell’infallibilità papale. Non conoscevo nessuno che potesse farlo meglio di me. [..] C’è relativamente poca gente che conosce dall’interno la teologia insegnata a Roma, che contemporaneamente abbia la capacità di presentarla in maniera comprensibile e di lumeggiarla criticamente». Il “divismo teologico” di cui parlava Emanuele Samek Lodovici già nel ‘71 su «Studi Cattolici» sembrerebbe qui raggiungere la sua vetta. Ma c’è di più.
«Ho preso tutto sulle mie spalle». In alcuni passaggi del libro-intervista edito dalla Queriniana, il teologo svizzero sembra addirittura identificarsi con la persona di Gesù Cristo, convinto di vedere nelle sue posizioni teologiche una proiezione perfetta di quella che sarebbe stata la condotta del Figlio di Dio. Nel capitolo intitolato “Potenza della preghiera” Küng scrivva senza imbarazzo: «Le questioni dell’infallibilità e della regolazione artificiale delle nascite erano per me questioni di coscienza. Non potevo agire diversamente da come ho agito [..] se non avessi riconosciuto ciò come la volontà di Dio non se ne sarebbe fatto nulla». Per poi aggiungere subito, appropriandosi delle parole dirette dal Messia ai farisei (Matteo 23): «Lo stesso Gesù, che proprio non aveva i migliori rapporti con i gerarchi del suo tempo, anzi ha resistito loro faccia a faccia, sarebbe stato contro questo tipo di infallibilità gerarchica. Sicuramente egli avrebbe trovato – cosa che il papa non ha trovato nell’enciclica sulla pillola Humanae vitae – che questo scritto dottrinale pontificio “pone gravi pesi sulle spalle degli uomini, pesi che essi non possono portare”». Küng chiude la risposta al giornalista tedesco identificandosi esplicitamente con lo sguardo di Gesù verso le folle (Matteo 9,36): «Queste affermazioni di Gesù furono e sono per me indicative. Quando mi resi conto che una gerarchia non si mostrava aperta a una correzione della dottrina, un’altra frase divenne la più importante di tutte: “Ho compassione per il popolo”. Per me soltanto non mi sarei preso tutto sulle spalle».
Ratzinger vs Kung. Per tutta la vita Küng ha affrontato il problema della morale cattolica in un modo semplicissimo: chiedendo ad essa di fare un passo indietro. «Naturalmente – scrive Küng in Perché un’etica mondiale - sarebbe richiesto proprio alle chiese di non prendere semplicemente la posizione, rigorosamente giusta, dell’immutabilità, dell’immobilità e del non adattamento. Sarebbe compito delle chiese, anche in questioni come la contraccezione, l’aborto e l’eutanasia, non offrire soluzioni unilaterali, bensì soluzioni mediatrici: una via ragionevole del centro tra libertinismo e rigorismo!».
Come per tante altre questioni, anche sulla sua idea di “etica minima” (l’ultimo must del teologo svizzero, da almeno due decenni largamente sponsorizzato da riviste e think tank di ogni genere) cala il giudizio chiaro e netto dell’amico-rivale Joseph Ratzinger, il quale mise subito in guardia dal pragmatismo utopico di un’etica globale così concepita. In La Chiesa, Israele e le religioni del mondo (San Paolo, 2000) Joseph Ratzinger scrive: «L'incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancora più sicura di sé. La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l’uomo, ma lo consegna al calcolo dell'utile, privandolo della sua grandezza».
Mentre da lassù per Hans Küng sarà finalmente tutto più chiaro, per la Chiesa, oggi, riflettere sulla sua teologia può essere utile per tenersi a distanza da certi esiti infausti che sembrano minacciarla gravemente.