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EPIDEMIA

Congo: ebola arriva a Goma. I mille ostacoli dei soccorsi

“Ebola non deve assolutamente arrivare a Goma”. Invece ci è arrivata: un primo caso di contagio, in una città commerciale con un milione di abitanti vicino al confine col Rwanda. Il piano per evitare il contagio c'è, ma il problema è la reazione della popolazione locale. Che non ha fiducia dei soccorsi internazionali e spesso li depreda

Creato 16_07_2019
Presidio CRI al confine Congo-Uganda

“Ebola non deve assolutamente arrivare a Goma” dicevano a fine maggio, dopo la scoperta di una nuova area di contagio tra Butembo e Goma, le autorità sanitarie impegnate a combattere l’epidemia di Ebola che da 12 mesi ha colpito le regioni orientali della Repubblica democratica del Congo. L’allarme era dato dal fatto che Goma è il capoluogo del Nord Kivu, è un importante centro commerciale con oltre un milione di abitanti e dista solo un chilometro dal confine con il Rwanda.

Non doveva, ma è successo. Il 14 luglio è stato registrato il primo caso di contagio. Si tratta di un Pastore proveniente da Butembo dove era entrato in contatto con degli ammalati. L’uomo ha raggiunto Goma su un autobus percorrendo 200 chilometri. La buona notizia è che le misure preventive adottate a Goma hanno funzionato. Non solo il Pastore è stato ricoverato, ma, così assicura il ministero della sanità congolese, sono stati fermati l’autista dell’automezzo e 18 passeggeri che adesso sono sotto osservazione, isolati e già vaccinati; e si sta cercando di individuare le persone entrate in contatto con loro per vaccinarle e creare così un secondo, più ampio cerchio di protezione dal virus. “Grazie alla rapidità con cui l’ammalato è stato identificato e così pure tutti i passeggeri entrati in contatto con lui – si legge in un comunicato del ministero della sanità – il rischio che il virus si diffonda in città è basso”.

Ha ragione, o meglio l’avrebbe se l’ottimo piano per circoscrivere la malattia fosse efficace, ma non lo è abbastanza. Un ammalato è stato individuato, forse altri no. In teoria chi presenta sintomi sospetti dovrebbe rivolgersi al più vicino presidio sanitario, accettare di essere ricoverato e, se risulta contagiato, di collaborare per individuare il maggior numero possibile di persone che potrebbero essere state a loro volta contagiate nei 21 giorni precedenti, tanto dura il periodo di incubazione della malattia. Se una persona muore con il sospetto che si tratti di Ebola – i sintomi quando la malattia si aggrava sono evidenti – i famigliari dovrebbero denunciarne il decesso. Se lo fanno il personale dell’Organizzazione mondiale della sanità si reca sul posto, prende in consegna il cadavere per impedire che qualcuno ne sia contagiato, provvede affinché venga sepolto secondo quanto prevede il protocollo e allestisce un centro mobile di vaccinazione per creare quel doppio cerchio di protezione così essenziale per poter interrompere la diffusione del virus.

Ma molte persone non ricorrono ai presidi sanitari e molte morti non vengono denunciate. Lo impedisce una diffusa, radicata e sostanzialmente fondata diffidenza nei confronti dell’autorità. C’è chi non crede all’esistenza della malattia, addirittura convinto che i sintomi mortali siano provocati da un veleno inventato allo scopo di reperire organi per i trafficanti. Altri non credono che il personale medico specializzato si occupi davvero dei malati. Altri ancora pensano a un complotto governativo per destabilizzare il paese… ( “Congo: Ebola si espande nonostante il vaccino”, 31-05-2019).

Però, anche quando una morte viene denunciata, non è detto che tutto funzioni. Molti infatti non accettano di essere vaccinati o di fornire informazioni su chi potrebbe essere entrato in contatto con il defunto. In tal caso il personale medico può fare ben poco non potendo imporre la vaccinazione e non avendo modo di farsi dare nomi e indirizzi. Oltre tutto succede che delle persone si ammalino anche se sono state vaccinate: questo aumenta la diffidenza fino a far credere che sia proprio il vaccino la causa della malattia. Capita infine che le squadre mediche oberate di lavoro non riescano a intervenire abbastanza rapidamente su un focolaio di infezione e allora il virus si diffonde.

Così un piano di intervento ben concepito ed efficiente sulla carta si riduce, per usare l’espressione del corrispondente diplomatico britannico James Landale, a un “macabro tiro a segno da lunapark senza possibilità di vittoria”. Il piano elaborato per impedire che Ebola si diffonda oltre confine diventerebbe ancora più aleatorio, se non si riuscisse a tenerlo fuori da Goma. Ogni giorno decine di persone attraversano il confine con il Rwanda nelle due direzioni. Tutti si devono lavare le mani in acqua clorurata e dire dove sono stati e se hanno avuto contatti con località in cui è presente l’epidemia. A tutti si misura la febbre. Manifesti e annunci vocali spiegano come fare per impedire la diffusione della malattia. Ma che qualche malato sfugga al controllo è solo questione di tempo senza contare che gli innumerevoli congolesi che praticano il contrabbando di piccole quantità di materie prime e di altri prodotti eludono i posti di frontiera e sanno come superarli con la complicità dei doganieri.  

Un dettaglio può far capire meglio contro quali ostacoli si battono le equipe dell’Oms impegnate in Congo. I maggiori finanziatori dell’intervento internazionale contro Ebola sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. A quanto ammonti il loro contributo è tenuto segreto… perché si teme che divulgare informazioni sui milioni di dollari donati potrebbe intensificare gli attacchi, già frequenti, al personale sanitario. La diffidenza di molti congolesi nei confronti del resto del mondo, accusato di non essersi preoccupato della guerra civile che per tanti anni ha sconvolto il paese, li induce a credere che la comunità internazionale stia usando Ebola per fare soldi; e a sperare che gli operatori sanitari e il personale che lo integra dispongano di una parte almeno di quel denaro.

Forse è poco, in effetti, ma dal 1999 è attiva in Congo la più grande missione di peacekeeping dell’Onu.