Confessione, tradire il segreto significa tradire Cristo
Se i vescovi francesi avessero letto le fiabe giuste, non avrebbero mai compiuto l’errore fatale di chiedere ai collaboratori del "drago" di "aiutarli" a estirpare la piaga degli abusi sui minori. I sacerdoti in confessione non stanno svolgendo una professione, ma sono parte di un sacramento. Tradire il segreto significa tradire il sacramento, tradire il sacramento significa tradire Cristo stesso. Certo, la Chiesa non ha molte armi per difendere la sua libertas, ma ha il martirio. L'esempio di Sant'Anselmo suggerito di Benedetto XVI.
Fiabe antiche, quelle in cui i draghi andavano tenuti alla larga e l’eroe era colui che riusciva ad abbatterli. E mentre le leggevi, imparavi a temere i draghi e «a vincere la paura con il coraggio. I draghi non possono essere domati ed entrare in dialogo con loro è fatale. Le vecchie storie lo hanno insegnato ai nostri figli. Al contrario, le nuove storie erano decisamente a favore dei diritti civili dei draghi e incoraggiavano percezioni che erano in realtà una forma di antica neolingua» (Michael O’Brien, Il Diario della peste).
Già. Sono decenni che si racconta ai bambini che i draghi sono in fondo degli innocui polli spennati, discriminati ingiustamente da chi ha deciso di affibbiare loro un’etichetta negativa. Quei bambini sono cresciuti e sono ora politici, banchieri, commercianti, e persino vescovi. E così pensano che con la bestia che sale dal mare, con il Leviatano, con il drago si possa intavolare un dialogo e collaborare insieme. Come la fiaba stupida del bambino che addomestica il drago e lo fa diventare il suo più affezionato compagno di avventure. Nossignori, il drago non si addomestica; se offre con fare conciliante la sua zampa, significa che sta semplicemente cercando di averti tra le sue grinfie e divorarti in un istante, quando meno te lo aspetti.
Ecco, se i vescovi francesi avessero letto le fiabe giuste, quelle dove i draghi sono il nemico da sconfiggere e da cui guardarsi, non avrebbero mai compiuto l’errore fatale di chiedere ai collaboratori del drago di “aiutarli” a estirpare dalle proprie comunità la piaga degli abusi sui minori. Quelli, increduli di tanta ingenuità, lo hanno fatto costruendo una narrazione che getta fango sulla Chiesa; poi si sono allargati ad elargire “consigli” ed infine hanno alzato la voce, pretendendo che i sacerdoti rivelino quanto ascoltano nella Confessione (vedi qui). E non si fermeranno.
Bisogna capire quale sia la posta in gioco, legata al sigillo sacramentale. Non bisogna commettere l’errore di pensare che si tratti di tutelare la privacy del penitente o di osservare un segreto professionale. Perché dall’altra parte verrà sempre messo davanti un presunto bene comune prevalente rispetto al diritto personale. Giustificazione che dopo quasi due anni di pandemia è diventata la parola d’ordine per imporsi in ogni ambito della vita umana. Il bonum poenitentis è sicuramente parte del sigillo sacramentale e non si vuole minimamente sminuirlo. Ma qui, in ballo ci sono anche e soprattutto il primato del diritto divino e la conseguente libertà della Chiesa.
Il sacerdote, nonché «l’interprete, se c’è, e tutti gli altri ai quali in qualunque modo sia giunta notizia dei peccati della confessione» (can. 983 § 2), non stanno svolgendo una professione e non sono nemmeno dei semplici amici fidati. Essi sono parte di un sacramento, nel quale è Cristo che ascolta la confessione ed è Cristo che assolve, nella persona del suo ministro. Tradire il segreto significa dunque tradire il sacramento, e tradire il sacramento è tradire Cristo stesso. Questa è la logica più profonda per cui «il sigillo sacramentale è inviolabile» (can. 983 §1).
Ora, non dobbiamo aspettarci che uno Stato ateo e laicista comprenda questo linguaggio ed ancor meno che lo accetti. Molto semplicemente dobbiamo imporre che lo accetti. Perché la potestà spirituale della Chiesa non deve chiedere il permesso del potere temporale per poter essere esercitata. La Chiesa è libera e sovrana nel proprio ordine: non attende autorizzazioni da parte dello Stato per compiere ciò che Cristo, il Figlio di Dio - e non un capo di stato qualunque -, gli ha ordinato. La Chiesa non è libera “in libero Stato”, nella misura in cui, quindi, lo Stato gli permette di essere tale; è libera perché riceve la sua potestas da Cristo stesso.
Si potrà obiettare che il Papa non ha molte divisioni per difendere la libertas Ecclesiae, per riprendere la famosa domanda sprezzante fatta da Stalin. E’ vero. Ma ha il martirio, che nell’ottica della fede è la più grande forza per vincere qualsiasi persecuzione. Non c’è secolo della sua storia in cui, da qualche parte, la Chiesa non abbia sofferto la persecuzione da parte di chi ritiene di avere un potere assoluto, al quale tutti devono assoggettarsi. Il nostro tempo sta vivendo l’ultimo, universale e più grave affondo alla libertà della Chiesa e alla sovranità di Cristo. La risposta dei cristiani è sempre quella: «Bisogna obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini» (At 5, 29), qualunque sia il prezzo da pagare e qualunque sia il consenso che una tale scelta possa avere.
Nella memorabile Epistola 210, scritta a papa Pasquale II tra la fine del 1099 e l’inizio del 1100, Sant’Anselmo descrive la dolorosa situazione, che lo porterà all’esilio: «Osservavo in Anglia molti abusi, correggere i quali era mio compito. Non li potevo però né correggere né, senza incorrere in peccato, tollerare. Il re esigeva in effetti che, sotto parvenza di giustizia, dessi il mio assenso ai suoi voleri, i quali erano in contrasto con la legge e col volere divino». Anselmo descrive la tracotanza di Guglielmo il Rosso, il quale non ammetteva che la Chiesa nel suo territorio fosse libera di ricevere legati pontifici, celebrare concili, obbedire a direttive non ben accette a Sua Maestà. Gli altri vescovi inglesi, secondo quanto riferito da Eadmero di Canterbury, autore della Vita Anselmi, lo lasciarono solo, preferendo una conciliazione con il Re, perché «impediti dai nostri consanguinei, che manteniamo, e dalle molteplici realtà del mondo, che amiamo».
La goccia che fece traboccare il vaso fu la proibizione con cui il Re volle impedire ad Anselmo di recarsi a Roma per consultare il Papa sulla brutta piega che, ormai da tredici anni, avevano preso le cose in Anglia. Il Re restò contrariato e rispose «che avevo peccato contro di lui colla semplice richiesta di detta licenza, e mi propose o di dargli per ciò soddisfazione come per una colpa e assicurargli che non gli avrei mai più domandato detta licenza né mi sarei mai appellato all’Apostolico, o di uscire senz’indugio dal regno. Ho preferito andarmene, anziché dare il mio consenso a un’azione nefanda». Sant’Anselmo preferisce un esilio volontario, sapendo di lasciare la Chiesa inglese nelle grinfie di Guglielmo, piuttosto che dare il proprio assenso a qualcosa che avrebbe minato alla base la libertà della Chiesa. Noi avremmo incominciato a (s)ragionare sul fatto che, dopotutto, non andare a Roma non era un dogma di fede; che la scelta dell’esilio avrebbe messo in difficoltà proprio quella Chiesa inglese che si voleva difendere, provocando una più dura reazione del Re; che c’era un bene comune da difendere, delle relazioni da mantenere, etc. Ma i Santi e i veri Pastori ragionano diversamente: «Ho preferito andarmene, anziché dare il mio consenso a un’azione nefanda».
Per questo Benedetto XVI, nell’Udienza generale del 23 settembre 2009, lo ha proposto all’attenzione di tutta la Chiesa, non solo per il suo acume teologico e l’integrità della vita monastica, ma anche per l’«energica lotta per la libertà della Chiesa, sostenendo con coraggio l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale [...]. Questa fedeltà gli costò, nel 1103, anche l’amarezza dell’esilio dalla sua sede di Canterbury. E soltanto quando, nel 1106, il re Enrico I rinunciò alla pretesa di conferire le investiture ecclesiastiche, come pure alla riscossione delle tasse e alla confisca dei beni della Chiesa, Anselmo poté far ritorno in Inghilterra, accolto festosamente dal clero e dal popolo. Si era così felicemente conclusa la lunga lotta da lui combattuta con le armi della perseveranza, della fierezza e della bontà».