Con un Lama donna, il buddismo è più glamour
È la seconda volta che il Dalai Lama parla di un suo successore donna. E lui risponde con gentile pazienza, perché probabilmente non fa altro che dire quel che gli intervistatori vogliono sentirsi dire. Non solo non costa nulla, ma garantisce ospitate, viaggi, premi e foto coi potenti dell’Occidente ex cristiano.
E ribussa a coppe! È la seconda volta che il Dalai Lama parla di un suo successore donna. La prima, due anni fa, in un’intervista al britannico Telegraph. L’intervistatore, in quell’occasione, rimasto a corto di domande lo ingaggiò su una questione che agli occidentali preme molto: il capo supremo del buddismo tibetano può essere di sesso femminile? Evidentemente, visto che il capo supremo del cattolicesimo, cioè il Papa, continua a fare orecchi da mercante sul tema, e visto che sarebbe non solo inutile ma anche a rischio sfuriata porre lo stesso quesito a qualche Patriarca ortodosso, la vexata quaestio è stata girata al Dalai Lama: hai visto mai?
Ma Tenzin Gyatso, ottant’anni appena compiuti, sa bene che cosa vuol sentirsi dire l’Occidente, per il quale il buddismo è le seguenti cose: a) una religione, b) un corpus unico, c) il cui capo universale è il Dalai Lama. Tutte e tre le cose sono false, ma all’Occidente dominato dal politicamente corretto hollywoodiano non interessa. E il Dalai Lama lo sa bene, perciò probabilmente non fa altro che dire quel che gli intervistatori vogliono sentirsi dire. Non solo non costa nulla, ma garantisce ospitate, viaggi, premi e foto coi potenti dell’Occidente ex cristiano (gli altri, musulmani in primis, se lo filano meno). Il quale lo usa quando intende dare uno scappellotto (non di più) d’immagine alla Cina, pronto tuttavia a lasciarlo alla porta se quest’ultima fa schioccare la frusta.
La quarta cosa a cui l’Occidente vuol credere è che il buddismo sia tutto tolleranza-benevolenza-compassione, e che la sua pratica faccia bene alla salute. E anche qui il Dalai Lama si adegua di corsa. Ora, la moda occidentale esige “quote rosa” ovunque possibile. Il problema è, però, che il Dalai Lama non è elettivo né cooptato da un collegio apposito: deve reincarnarsi in qualcuno. Naturalmente, non è mai avvenuto che si sia reincarnato in una donna (e nemmeno in un africano nero, se è per questo). Ma potrebbe darsi, cosa che nessuno può escludere in linea di principio perché il Karma soffia dove vuole. L’unica cosa che il Dalai Lama ha potuto metterci di suo è che lui ne sarebbe contento. Già: contento l’Occidente, contento anche lui. Riporta il Corriereonline che ‘sta storia è andato a ripeterla alla Bbc. Tuttavia, questa volta ha voluto strafare e, nel ribadire l’idea, ha aggiunto che, sì, la donna «biologicamente ha un maggiore potenziale di mostrare amore e compassione», e che in questo mondo «pieno di problemi la donna dovrebbe assumere un ruolo più importante». Solo che «se deve arrivare una donna, il suo volto dovrebbe essere molto, molto attraente».
Buddismo non solo dal volto umano (quello ce l’ha già, Laos e Birmania a parte), ma anche femminile e glamour. Talmente convinto era che, all’intervistatore (il quale, sorpreso, chiedeva conferma) il Lama Supremo ha ripetuto che proprio così, «deve essere molto attraente». La domanda che uno si pone, a questo punto, è: ma finora come hanno fatto? Infatti, lui non è che sia particolarmente charmant, né lo erano i suoi predecessori (quelli, almeno, di cui esistono foto). Forse l’interpretazione del bellissimo Brad Pitt in Sette anni in Tibet (1997) e quella precedente del fusto Keanu Reeves in Piccolo Buddha (1993) hanno molto fruttato in termini di conversioni? Perché mai una maliarda pin-up paludata in giallo-zafferano e amaranto dovrebbe essere il massimo della reincarnazione per i seguaci del Gautama versione Tibet? L’intervistatore si deve essere posto la medesima domanda, visto che, trasecolando, ha insistito: «Sta scherzando?». Ma se ne è subito pentito, dal momento che quello, dimentico del premio Nobel per la Pace 1989, quasi si indignava: «Sto dicendo il vero!».
Va bene, va bene, non si arrabbi (avrà di sicuro pensato l’anchorman, tant’è che si è affrettato a cambiare argomento). Il rabbuiamento del Dalai Lama sarà forse servito a evitare che l’altro ci prendesse gusto e incalzasse con le domande politicamente corrette, tipo: e se si reincarnasse in un gay o un in un trans? Peccato, perché a noi rimane il dubbio. Tuttavia, prima o poi il Dalai Lama dovrà rifletterci: vista la potenza finanziaria della lobby Lgbt e la sua conclamata capacità di imporre la sua agenda ai governi e alle organizzazioni internazionali, potrebbe essere la volta buona per una guerra mondiale contro la Cina al grido di «Tibet libero!».