Con Renzi un'altra spinta statalista
L'annunciata riforma della Pubblica amministrazione è all'insegna del controllo centralizzato. Si tagliano le istituzioni sul territorio ma non si toccano le burocrazie parassitarie accumulatesi a Roma. E anche per la libertà di educazione...
C’è un’enorme e preoccupante contraddizione tra i lodevoli obiettivi di fondo dell’ambizioso progetto politico di Matteo Renzi e i mezzi che sta usando per raggiungerli. Già lo si era potuto bene cogliere nei giorni scorsi leggendo la documentazione già disponibile riguardo al suo progetto di riforma generale della pubblica amministrazione. E tanto più lo si è visto sabato ascoltando il suo discorso all’Assemblea nazionale del Partito democratico.
In modo chiaro e diretto l’uomo promette di impegnarsi sinceramente in un programma di rinnovo complessivo della vita pubblica del nostro Paese fondato sulla liberazione di energie civili e sociali cui un vecchio ordine costituito ormai sclerotico impedisce di emergere. E avvalendosi di uno stile oratorio molto efficace lo fa in un modo libero e informale che conquista il pubblico. Quando però - al di là del simpatico turbine di coriandoli e stelle filanti che Renzi non smette mai di far roteare attorno a sé - si vanno a vedere i mezzi coi quali intende raggiungere i fini che promette, ecco apparire la vecchia maschera di uno statalismo ormai datato.
Nel progetto di nuova Italia che Renzi propone non c’è posto per la fiducia e quindi per l’autonomia responsabile delle persone, delle comunità territoriali e delle organizzazioni sociali. La sua leva principale, anzi unica, è il controllo centralizzato. Non a caso i suoi progetti di razionalizzazione della spesa pubblica partono sempre da tagli alla rete delle istituzioni sul territorio: via le province, meno prefetture, meno sedi regionali della Rai e così via. Del vero problema di fondo dello Stato italiano, ossia la montagna di burocrazie parassitarie statali e parastatali che è accumulata a Roma, non parla nemmeno. Anche la grande novità proclamata con riguardo all’amministrazione statale, ovvero la mobilità obbligatoria degli statali entro un raggio di cinquanta chilometri, ne costituisce una rigorosa conferma. Avendo il comune di Roma, il più esteso d’Italia, circa un diametro di cinquanta chilometri, le decine di migliaia di burocrati romani sono già sicuri di non dover cambiare città. Sono i pochi funzionari prefettizi di Gorizia che corrono il rischio di venire trasferiti a Udine o viceversa.
In quanto al problema educativo e alla libertà dell’educazione merita di andare a vedere il passaggio del discorso di sabato all’Assemblea nazionale del PD in cui Renzi delinea un movimento di rieducazione culturale del popolo italiano fondato su una grande azione congiunta della scuola e della Rai perciò adeguatamente riformata. Qualcuno potrebbe incautamente pensare che ciò varrebbe solo per le scuole statali. Nient’affatto: all’art. 2, comma g) della bozza del progetto di riforma della Pubblica amministrazione, si legge che nel campo d’azione di tale riforma rientrano anche “le scuole paritarie, le università non statali, i soggetti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (…)”. Si prospetta insomma, a fin di bene…, una statalizzazione generale di fatto sia della scuola non statale che di qualsiasi ong o onlus. E si potrebbe procedere con altri esempi.
Sarebbe però un errore credere che Renzi inclini in tale direzione per captare il consenso di quella maggior parte del suo partito che, diversamente da lui, è erede del Pci. Si tratta invece di qualcosa che sta profondamente anche nelle sue corde: è lo statalismo tipico e sostanziale di quella sinistra democristiana di cui Renzi è erede. L’idea secondo cui compito principale e anzi privilegio della politica, del potere, è quello di fare il bene comune; e non semplicemente di porre e di mantenere le condizioni perché alla sua edificazione e al suo continuo aggiornamento provveda liberamente la società civile. Un’idea talvolta spacciata per francescana ma in effetti di derivazione marxista. Nel clima degli anni ’50-’60 del secolo scorso - in un ambiente come quello fiorentino dove l’eredità del Savonarola non si è mai del tutto spenta - in trappole del genere qualcuno poteva anche cadere. Oggi però, con tutto ciò che è successo e con tutto ciò che si è visto nel frattempo, caderci in buona fede è quantomeno segno di colossale distrazione.
Stando così le cose, che cosa si può fare? A mio avviso, almeno nell’immediato, cercare di costruire un’alternativa a Matteo Renzi è tempo perso. Sarebbe molto meglio che quella componente della maggioranza di governo che, dentro e fuori del Pd, ha un’identità cristiana consapevole e non subalterna alla cultura dominante si mobilitasse per diventare dentro tale maggioranza sia una componente attiva e sia un interlocutore forte e intransigente tutte le volte che occorre esserlo.