Con le scarpe di Mao la rivoluzione finisce sotto i piedi
Si chiamano Tian Lang Trainers e per cinquant’anni sono state le calzature più usate dai minatori e dagli operai cinesi. Oggi sono il nuovo oggetto di culto con oltre 200 milioni di paia vendute ogni anno. In Usa stanno quasi soppiantando le mitiche All Stars. Le scarpe di Mao stanno per arrivare anche in Italia.
É’ l’unico prodotto al mondo dove il marchio “made in China” è esibito come garanzia di orginalità e autenticità. Ed è pure il solo oggetto proveniente dall’impero giallo che non sia copia o imitazione del suo doppio occidentale. Si chiamano Tian Lang Trainers e per cinquant’anni sono state le calzature più usate da minatori e contadini cinesi per via della robustezza e della comodità. Originariamente venivano prodotte in uno stabilimento a poca distanza dal famoso tempio Shaolin, alle pendici delle montagne di Songhan. Ora, grazie ad una partnership con la Ospop, nuova azienda cinese di abbigliamento, stanno per sbarcare anche in Italia.
L’azienda assicura che una parte degli introiti dalla vendita delle scarpe saranno investiti in fondi che aiuteranno i giovani della regione di Tian Lang (da qui prendono il nome le scarpe), la leggendaria terra del kung-fu, a frequentare l’università. Ma non è chiaro se pure questo faccia parte dell’intelligente strategia di marketing, grazie alla quale la scarpa ha già invaso l’America ed è diventata marchio distintivo dell’upper class modaiola, oggetto di culto con oltre 200 milioni di paia vendute ogni anno. In Usa stanno quasi soppiantando le mitiche All Stars, scarpe trans-generazionali, adottate dapprima dal ghetto punk poi diventate fenomeno di massa, tanto che la Converse, l’azienda che le produce, è stata acquisita dalla multinazionale Nike.
Le Tian Lang sono già entrate nelle classifiche dei collezionisti per il logo che significa "lavoro", ma soprattutto per la loro storia. Infatti, la sigla Ospop sta per One small point of pride, ovvero “Piccolo motivo d’orgoglio”, e sulla caviglia della scarpa c’è una “I” rossa cerchiata: il gong, che nell’ideogramma cinese significa lavoro, esplicito omaggio a chi le ha indossate e all’epopea che queste calzature rappresentano. Devono il loro successo a quel look “grezzo”, indispensabile per sentirti underground, e al bisogno di andarle a sporcare il prima possibile con la vita di tutti i giorni. Gomma e canvas: materiali poveri ma autentici e sufficientemente snob per diventare subito modaiole e rappresentare uno stile di vita alternativo e originale.
Ricordate? É già successo, negli anni Ottanta, con le Timberland, scarpe usate dai boscaioli e dalla working class americana e trasformate in scarpe da barca: tutti ne avevano almeno un paio da indossare nel tempo libero e nei week end, come se avessero avuto uno yacht ormeggiato in Costa Smeralda. Adesso ci risiamo. Le sneakers della Ospop hanno il pedigree giusto per aspirare al successo. Vengono dalla storia della Repubblica popolare cinese, ma possiedono già le caratteristiche del mito: erano infatti ai piedi dei rivoluzionari che accompagnarono Mao nella Lunga Marcia e poi divennero, insieme alla divisa imposta al popolo cinese dal Grande Timoniere, la calzatura che accomunava le classi dei contadini, degli operai e dei minatori. Le Tian Lang hanno lasciato le loro impronte su strade e campi delle numerose province cinesi e ora, a quanto pare, è pronte a lasciarle nel resto del mondo. Indistruttibili per milioni di lavoratori, queste scarpe sono un elemento essenziale dell’equipaggiamento da lavoro in Cina.
In Italia, le scarpe di Mao saranno destinate a diventare accessori di moda vendute esclusivamente nelle boutique, come prodotto per pochi raffinati intenditori. Quasi un controsenso, date le loro origini. Ma non è la prima volta che l’oggetto del desiderio consumistico arrivi da origini così lontano. Qualche esempio? Le t-shirt con la faccia del Che o la kefiah finto palestinese esibite dai giovani come insegne del rifiuto globale. Oggi è il turno delle scarpe della Lunga Marcia, un sciccoso gadget da allineare insieme agli altri nell’armadio del rivoluzionario fashion e trendy. O da indossare, magari, per andare a protestare contro la repressione in Tibet e i diritti calpestati dal comunismo di Pechino. A lanciare sul mercato italiano il work style maoista ci penseranno i creativi e i pubblicitari. Magari con l’aiuto dell’immancabile Oliviero Toscani: potrebbe inventare un bel poster trasgressivo con un improbabile Mao vestito come un gagà capitalista che dice: «La rivoluzione? L’ho messa sotto i piedi».
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