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CHIESA

Comunione ecclesiale? Verso la pienezza

Il recente incontro a Gerusalemme di papa Francesco con il patriarca Bartolomeo ha fatto emergere con forza l'obiettivo di una "piena comunione" tra cristiani. Ma un tale cammino implica l'idea di "gradualità".

Ecclesia 07_06_2014
Papa Francesco e il patriarca Bartolomeo a Gerusalemme

Nel recente incontro a Gerusalemme di Papa Francesco con il patriarca Bartolomeo e con altri rappresentanti delle Chiese ortodosse è emerso con insistenza il concetto di “comunione ecclesiale”. La dichiarazione comune, firmata in data 25 maggio 2014, afferma che l’obiettivo del dialogo ecumenico è quello di raggiungere «la piena comunione», che purtroppo ancora oggi non sussiste. Piena comunione significa il raggiungimento dell’unità, che comporta la professione dell’unica fede e dell’unico amore verso Dio e il prossimo, e che avrà come sbocco finale, una volta raggiunta questa unità, la partecipazione alla stessa eucaristia. Questa piena comunione non significa fermarsi a «un minimo comune denominatore», bensì lasciarsi condurre dallo Spirito verso la verità tutta intera.

Oggi a noi questo concetto di “piena comunione” come meta verso cui camminare sembra qualcosa di scontato, ma vi si è giunti dopo un lungo cammino, iniziato già nella Chiesa antica. Esso implica l’idea di “gradualità”, e questa idea è stata portata avanti soprattutto da sant’Agostino, ma non era accettata da tutti. Al suo tempo infatti i donatisti (che formavano in Africa una Chiesa parallela, in quanto essi consideravano i cattolici come cristiani “contaminati”, non più “puri”, perché alcuni dei loro vescovi avrebbero mostrato dei cedimenti durante la persecuzione di Diocleziano all’inizio del IV secolo); i donatisti, dunque, avevano un concetto rigido di “comunione ecclesiale”: o c’era o non c’era. Secondo loro nei cattolici non c’era più, e quindi non solo essi non erano nella Chiesa, ma non erano neppure cristiani. Così quando un cattolico passava tra le loro file, essi lo ribattezzavano come se fosse un pagano. 

Cinquant’anni prima che spuntassero i donatisti, il santo vescovo e martire Cipriano di Cartagine sosteneva un’ecclesiologia altrettanto rigida. Per lui o si era nella Chiesa o si era fuori: non c’erano vie di mezzo. Quindi gli eretici e gli scismatici, avevano voglia di dare il battesimo e gli altri sacramenti: tutto era nullo, senza valore, come acqua fresca. Ragion per cui se uno scismatico o un eretico, battezzato fuori della Chiesa cattolica, chiedeva di essere riammesso nella Chiesa, veniva ribattezzato.

Su tale questione ci fu una contesa tra Cipriano e il vescovo di Roma, che allora era Stefano, il quale sosteneva che il battesimo, anche se conferito fuori della Chiesa cattolica, se dato secondo il rito della Chiesa, era valido e non andava ripetuto, ma solo risanato con l’imposizione delle mani da parte del vescovo. Tra Cipriano e Stefano si venne quasi alla rottura, il che avrebbe significato un grave scisma. Entrambi si richiamavano alla Scrittura e alla tradizione, ed entrambi ritenevano la questione di estrema gravità, e gravida di conseguenze per l’unità della Chiesa.

Fu Cipriano a fare un passo indietro, non sulla dottrina del battesimo, ma sul valore da dare a tale dottrina. Cipriano capì che una rottura con Roma avrebbe comportato non solo la rottura della comunione ecclesiale, ma anche l’esclusione dalla Chiesa cattolica. E questo Cipriano non lo voleva. Amava troppo la Chiesa, e per lui essere nella Chiesa significava rimanere in comunione con il vescovo di Roma. Nel 256 durante il sinodo autunnale che i vescovi africani ogni anno tenevano (oltre a quello primaverile), Cipriano pose all’ordine del giorno il problema della validità del battesimo conferito fuori della Chiesa cattolica. Erano presenti 86 vescovi, i quali conoscevano bene il pensiero di Cipriano su questo punto.

All’apertura del sinodo, il primate di Cartagine (chiamato allora “papa”) fece un breve discorso molto chiaro, nel quale diceva in sostanza questo: «Voi conoscete il mio pensiero; però ciascuno è libero di esprimersi come crede; lasciamo la libertà a chi la pensa diversamente di agire di conseguenza, senza imporre nulla a nessuno». Così Cipriano declassava la questione del battesimo, rendendola una libera scelta dei singoli vescovi. Di fatto tutti gli 86 vescovi presenti si espressero secondo il pensiero di Cipriano, e cioè che il battesimo dato fuori della Chiesa era nullo e andava ripetuto. Non ci fu un solo intervento contrario (tra parentesi, questo la dice molto sui condizionamenti che ci possono essere anche nei sinodi episcopali). Tuttavia non ci fu un’esplicita condanna della prassi romana, e anche Roma non ebbe il tempo di reagire. Il papa Stefano morì poco dopo, e nel 258 scoppiò la persecuzione di Valeriano, nella quale Cipriano morì martire. Così si evitò la rottura, e la questione rimase in sospeso. La posizione romana fu poi gradualmente accettata anche dai vescovi africani, e sarà ormai fuori discussione al tempo di sant’Agostino, che la difenderà anche dal punto di vista dottrinale.

I donatisti, che alla fine del IV secolo erano all’apice della loro espansione, si facevano forti proprio dell’ecclesiologia di Cipriano, ma, dirà poi sant’Agostino, non avevano la sua stessa carità, il suo stesso amore per la Chiesa. È in questo contesto che Agostino chiarisce il concetto di “gradualità” nella comunione ecclesiale. L’appartenenza alla Chiesa è infatti una realtà complessa, che non può essere ridotta al criterio del “o tutto o niente”, “o dentro o fuori”.

Infatti la Chiesa è santa, ma al suo interno ci sono anche dei peccatori, cioè persone che hanno gravemente mancato all’amore verso Dio e verso il prossimo; parimenti, vi sono persone che visibilmente non fanno parte della Chiesa, ma poiché hanno l’amore verso Dio e verso il prossimo, in qualche modo ne fanno già parte. Il battesimo, che è una realtà santa, come non lo perde il cattolico peccatore, così può riceverlo anche il cristiano scismatico, perché rimane sempre un sacramento della Chiesa, e perciò stabilisce un legame di comunione, sia pure imperfetto. È dunque sempre l’unica Madre Chiesa, afferma Agostino, che per mezzo del battesimo genera tutti, sia quelli che sono visibilmente dentro, sia quelli che sono fisicamente fuori. Per questo, quelli che da fuori chiedono di rientrare nel seno della Madre, non vengono ribattezzati, perché hanno già il battesimo della Chiesa.

Tuttavia l’essere separati è una ferita grave che deve essere risanata. Sant’Agostino avrebbe accettato pienamente l’immagine di Papa Francesco della Chiesa come “ospedale da campo”: dentro la Chiesa, diceva infatti Agostino, ci sono cristiani feriti dal peccato, che spesso è anche una ferita mortale: costoro vanno curati e risanati nelle parti malate; ma anche fuori della Chiesa ci sono cristiani feriti dal peccato della divisione: essi  non vanno considerati come completamente morti, ma solo feriti, e quindi vanno curati lì dove c’è la ferita. 

I donatisti, che hanno il battesimo, la cresima, l’eucaristia, l’ordine, le Scritture, la preghiera, e così via, hanno ricevuto tutte queste “cose sante” dalla Madre Chiesa, che è sempre l’unica Chiesa. In questo c’è “comunione”; ma, diceva Agostino, poiché non c’è ancora la piena unità di fede e di amore, c’è ancora una ferita da risanare. Se coloro che, separandosi dalla Madre Chiesa, non conservassero più nulla di quanto hanno ricevuto da essa, allora la separazione sarebbe totale. Se invece essi conservano alcune cose, sotto questo aspetto non sono separati, fanno ancora parte del tessuto ecclesiale, anche se per il resto è lacerato.

È questo concetto agostiniano di una gradualità nella comunione ecclesiale che sta alla base di quel dialogo ecumenico che la Chiesa ha sviluppato soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, e che fonda la possibilità della preghiera comune tra tutti i cristiani e della comune azione di carità in favore dei più poveri. È chiaro che con i cristiani Ortodossi gli elementi di comunione sono molto più numerosi di quelli con i protestanti. Il riconoscimento della validità dell’unico battesimo resta comunque la base da cui partire (anche se alcuni settori dell’Ortodossia ritengono valido solo il loro battesimo, ragion per cui, come al tempo dei donatisti, se un cattolico o un protestante diventa ortodosso, viene ribattezzato).

Terminiamo con una citazione di Agostino, che mostra tutta la complessità della questione dell’appartenenza alla Chiesa, il che è un ammonimento per quelli che troppo superficialmente credono di essere “dentro”: «Non appartengono all’unità della Chiesa, non solo coloro che chiaramente hanno commesso il sacrilegio della separazione, ma anche quelli che, pur essendo fisicamente in quella unità, ne sono separati per la loro pessima vita. [...]. Pertanto, sia che sembrino trovarsi all’interno della Chiesa, sia che apertamente ne siano fuori, ciò che è carne è carne, ciò che è paglia è paglia. Se si ha nel cuore la durezza carnale, sempre si rimane separati dall’unità di quella Chiesa che “non ha né macchia né ruga” (Ef 5, 27), anche se si è mescolati all’assemblea dei fedeli. Tuttavia non bisogna disperare di nessuno, né di chi all’interno della Chiesa si mostra carnale, né di chi l’avversa apertamente stando fuori. Quanto a quelli che si lasciano guidare dallo Spirito o che vi tendono con devoto impegno, costoro non camminano fuori della Chiesa; anche se la cattiveria degli uomini o un caso di necessità sembrano averli cacciati, essi stanno lì, più che se fossero dentro, dal momento che non si erigono per nulla contro la Chiesa, ma stanno radicati con il saldissimo tronco della carità sulla solida pietra dell’unità» (Sette libri sul battesimo, I, 14.26).

Agostino, che è il dottore della carità (doctor amoris) si rifà continuamente all’inno alla carità di san Paolo (1 Cor 13), dove l’Apostolo dice che «senza la carità non sono nulla». Potrei avere tutti i carismi, potrei avere la pienezza della fede, potrei distribuire tutti i miei beni, potrei dare il mio corpo alle fiamme, «ma se non ho la carità, niente mi giova» (1 Cor 13, 1-3). Agostino aggiungerebbe: potrei avere tutti i sacramenti, potrei indossare tutti i paramenti, ma se non ho la  carità «niente mi giova». Per questo “comunione” e “carità” devono diventare una cosa sola, come è già nella Chiesa celeste.