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MAGISTERO

Comunione ai risposati, la coscienza non è una scappatoia

Il cardinale Walter Kasper nella sua relazione "Il Vangelo nella Famiglia" esamina la clausola della coscienza. E giunge alla conclusione che, per considerare nullo il matrimonio, sia importante soprattutto la valutazione della coscienza del coniuge. Il Magistero, però, sottolinea l'importanza del processo canonico, prova oggettiva della coscienza dei singoli.

Famiglia 11_10_2014
Sacra Rota

Il cardinale Walter Kasper nella sua relazione dedicata a “Il Vangelo nella Famiglia”, tenutasi il 2 febbraio di quest’anno, tra i molti aspetti indagati esamina anche, in tema di divieto di accedere alla Comunione eucaristica da parte dei divorziati risposati, la soluzione della cosiddetta clausola di coscienza. Se Tizio in buona coscienza ritiene che il proprio precedente matrimonio sia nullo allora, tenuto conto del principio del primato della coscienza, è legittimato a comunicarsi. Sarebbe sufficiente per sciogliere il matrimonio la verifica di nullità da parte di un vicario episcopale o addirittura di un penitenziere. Non servirebbe invece il processo canonico, iter necessario invece secondo l’attuale disciplina della Chiesa (è una tesi che insieme al card. Lehman già espose nel documento “Per l’accompagnamento pastorale di persone con matrimoni falliti, divorziati e divorziati risposati” del 10 luglio 1993).

L’obiezione non regge. Se vogliamo usare il criterio della “coscienza” dobbiamo usarlo fino in fondo. La coscienza del singolo, se fosse davvero retta, dovrebbe così ragionare: "In coscienza reputo che il mio matrimonio sia nullo, ma per verificarlo al di là delle mie percezioni soggettive la coscienza mi impone di sottoporre la mia vicenda al vaglio di un terzo arbitrio e di strumenti probatori oggettivi. Dunque aspetterò gli esiti di un processo canonico". Come insegna Tommaso D’Aquino, è doveroso usare il mezzo processuale nella ricerca di una verità fattuale perché per sua natura il processo è strumento più efficace delle proprie percezioni personali. Affidarsi al processo è oggettivare l'indicazione intuitiva della coscienza, confutare errori commessi inconsapevolmente, nonché evitare che si possano prendere lucciole per lanterne in buonissima coscienza. Soprattutto perché il processo per sua natura – e a differenza di esami unilaterali a carico di penitenzieri o vescovi – prevede il contraddittorio con la parte avversaria – nel caso di specie: il difensore del vincolo – e quindi per arrivare alla dichiarazione di nullità occorre superare una serie di obiezioni realmente probanti.

Così si espresse sulla questione, per nulla inedita in seno alla Chiesa, il cardinal Gerhard Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel documento dell’ottobre 2013 Indissolubilità del matrimonio e dibattito sui divorziati risposati e i sacramenti: “Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale”. È per questo che la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati del 14 settembre 1994 al n. 6 afferma che “i pastori e i confessori (...) hanno il grave dovere di ammonire [il credente] che tale giudizio di coscienza è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa”. Questo perché “si deve certamente discernere se attraverso la via di foro esterno stabilita dalla Chiesa vi sia oggettivamente una tale nullità di matrimonio. La disciplina della Chiesa, mentre conferma la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici nell'esame della validità del matrimonio dei cattolici, offre anche nuove vie per dimostrare la nullità della precedente unione, allo scopo di escludere per quanto possibile ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva conosciuta dalla retta coscienza”. In modo analogo Benedetto XVI nel novembre del 2011 dalle colonne dell’Osservatore Romano ammonì sul fatto che “la recezione dei Sacramenti non si può basare su ragioni interiori”.

La lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede prima richiamata poi aggiunge un secondo motivo per cui il processo canonico è indispensabile: “L'errata convinzione di poter accedere alla Comunione eucaristica da parte di un divorziato risposato, presuppone normalmente che alla coscienza personale si attribuisca il potere di decidere in ultima analisi, sulla base della propria convinzione, dell'esistenza o meno del precedente matrimonio e del valore della nuova unione. Ma una tale attribuzione è inammissibile. Il matrimonio infatti, in quanto immagine dell'unione sponsale tra Cristo e la sua Chiesa, e nucleo di base e fattore importante nella vita della società civile, è essenzialmente una realtà pubblica” (7). Ciò a dire che il matrimonio non è affare privato del credente, ma ha una sua dimensione pubblica e quindi tutti i giudizi sulla sua validità non possono che articolarsi su un piano anch’esso pubblico. Ed infatti la Lettera così conclude: “il consenso, col quale è costituito il matrimonio, non è una semplice decisione privata, poiché crea per ciascuno dei coniugi e per la coppia una situazione specificamente ecclesiale e sociale. Pertanto il giudizio della coscienza sulla propria situazione matrimoniale non riguarda solo un rapporto immediato tra l'uomo e Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi canoniche obbliganti in coscienza. Non riconoscere questo essenziale aspetto significherebbe negare di fatto che il matrimonio esiste come realtà della Chiesa, vale a dire, come sacramento” (8).

La clausola di coscienza viene invocata in genere per tre ipotesi concrete, le quali però trovano la medesima conclusione dottrinale. Se il coniuge divorziato, che ritiene in coscienza il proprio matrimonio nullo, contraesse successivo matrimonio civile, questo matrimonio agli occhi di Dio e della Chiesa non esisterebbe, dato che l'unico matrimonio valido per un battezzato è quello sacramentale celebrato secondo la forma canonica. E dunque anche se il primo matrimonio fosse realmente nullo, il secondo costituirebbe una forma di convivenza non approvata dalla Chiesa, relazione che impedirebbe alla persone di accostarsi alla comunione.

Seconda ipotesi: il coniuge, convinto che il proprio matrimonio non sia valido, non si risposa civilmente e decide così di accedere alle Sacre Specie. Ma la Chiesa, fino a quando non avrà fatto un processo sul caso, non potrà avere certezza che la coscienza del coniuge sia retta e quindi correttamente non potrebbe acconsentire che lo sposo che ha deciso di abbandonare la sua sposa – peccato grave perché lede il bene della fedeltà - possa comunicarsi perché non risposato, semplicemente fidandosi della sua intima e soggettiva percezione.

Tale conclusione è valida anche per quest’ultima ipotesi. Il matrimonio è oggettivamente nullo, ma il motivo di nullità è noto solo al coniuge e questo motivo non può essere provato in tribunale: ad esempio una lettera della moglie scritta prima del matrimonio in cui affermava che non credeva nell'indissolubilità del vincolo, poi bruciata da quest'ultima. In questo caso - come prima si accennava - la Chiesa non può ammettere al sacramento il fedele fidandosi solo della sua parola, a meno che la confessione del coniuge che chiede la nullità non sia avvallata da un testimone il quale sia chiamato a riportare i fatti di sua conoscenza in sede processuale per verificarne la fondatezza.