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SINODO/ LA PASTORALE

Comunione ai divorziati, un "no" che però non esclude

Abbiamo visto che il matrimonio per sua natura è indissolubile e dunque con il divorzio si commette un atto gravissimo, trovandosi così nelle condizioni non adatte per accedere alla comunione eucaristica. Ma l’esclusione dal sacramento dell’Eucarestia significa affatto l'esclusione dalla vita ecclesiale.

Famiglia 05_10_2014
Comunione ai divorziati: le ragioni del no

Nelle scorse due puntate abbiamo visto che il matrimonio per sua natura è indissolubile e dunque chi attenta a questa sua proprietà con il divorzio commette un atto gravissimo, trovandosi così nelle condizioni non adatte per accedere alla comunione eucaristica. A maggior ragione chi una volta ottenuto il divorzio si risposa civilmente, essendo questi un adultero. L’esclusione dal sacramento dell’Eucarestia significa allora esclusione dalla vita ecclesiale? Assolutamente no. La Chiesa da sempre, e non solo in questo ultimo periodo pre-sinodale, si prende cura delle persone divorziate e risposate proprio perché come disse Gesù «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2, 17).

Nei documenti del Magistero e di altre fonti della gerarchia cattolica vengono indicati strumenti di carattere pastorale utili per accogliere ed aiutare questi credenti in difficoltà a far ritorno ad una condizione di vita compatibile con l’accesso alla comunione sacramentale, strumenti che tutti hanno il loro fulcro nella misericordia che però per essere tale si fonda sempre sulla verità dottrinale. Infatti, così si esprime Giovanni Paolo II nell’esortazione post-sinodale Reconciliatio et paenitentia del 1984 in merito «a certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi inestricabili. Non pochi interventi nel corso del Sinodo, esprimendo il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce la coesistenza e il mutuo influsso di due principi, egualmente importanti, in merito a questi casi. Il primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell'opera di Cristo, non volendo la morte del peccatore, ma che si converta e viva, attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora, cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L'altro è il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste» (34).

Fanno eco a queste parole quelle presenti nella Nota pastorale della Cei del 1979 dal titolo “La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimoniali difficili”: «La Chiesa non può discostarsi dall'atteggiamento di Cristo: per questo la chiarezza e l'intransigenza nei princìpi e insieme la comprensione e la misericordia verso la debolezza umana, in vista del pentimento sono le due note inscindibili che contraddistinguono l'opera pastorale della Chiesa» (parte I, 3.12).

Chiarito questo punto, evidenziamo il fatto che un primo elemento della pratica pastorale per i divorziati risposati ha carattere pedagogico: occorre far comprendere a questi credenti che l’esclusione dal sacramento dell’Eucarestia non ha valore sanzionatorio. Nella “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati”, indirizzata all’episcopato tedesco da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (14 settembre 1994) si insiste molto sul fatto che il divieto di comunicarsi non ha carattere punitivo o discriminatorio, ma è mera conseguenza di una scelta libera del credente. Compito pastorale è innanzitutto quello di far comprendere quindi al fedele che la Chiesa non è nei suoi confronti una cattiva matrigna bensì una premurosa madre: «i pastori sono chiamati a far sentire la carità di Cristo e la materna vicinanza della Chiesa; li accolgano con amore, esortandoli a confidare nella misericordia di Dio, e suggerendo loro con prudenza e rispetto concreti cammini di conversione e di partecipazione alla vita della comunità ecclesiale» (2). «Ciò non significa – prosegue il documento - che la Chiesa non abbia a cuore la situazione di questi fedeli, che, del resto, non sono affatto esclusi dalla comunione ecclesiale. Essa si preoccupa di accompagnarli pastoralmente e di invitarli a partecipare alla vita ecclesiale nella misura in cui ciò è compatibile con le disposizioni del diritto divino, sulle quali la Chiesa non possiede alcun potere di dispensa. D'altra parte, è necessario illuminare i fedeli interessati affinché non ritengano che la loro partecipazione alla vita della Chiesa sia esclusivamente ridotta alla questione della recezione dell'Eucaristia. I fedeli devono essere aiutati ad approfondire la loro comprensione del valore della partecipazione al sacrificio di Cristo nella Messa, della comunione spirituale, della preghiera, della meditazione della Parola di Dio, delle opere di carità e di giustizia» (6). 

Ed infine così conclude: «Con sollecita carità fare tutto quanto può fortificare nell'amore di Cristo e della Chiesa i fedeli che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. Solo così sarà possibile per loro accogliere pienamente il messaggio del matrimonio cristiano e sopportare nella fede la sofferenza della loro situazione. Nell'azione pastorale si dovrà compiere ogni sforzo perché venga compreso bene che non si tratta di nessuna discriminazione, ma soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo che ci ha ridato e nuovamente affidato l'indissolubilità del matrimonio come dono del Creatore. Sarà necessario che i pastori e la comunità dei fedeli soffrano e amino insieme con le persone interessate, perché possano riconoscere anche nel loro carico il giogo dolce e il carico leggero di Gesù. Il loro carico non è dolce e leggero in quanto piccolo o insignificante, ma diventa leggero perché il Signore - e insieme con lui tutta la Chiesa - lo condivide. É compito dell'azione pastorale che deve essere svolta con totale dedizione, offrire questo aiuto fondato nella verità e insieme nell'amore» (10).

Stesse indicazioni le troviamo scritte documento “Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa Italiana” (25 luglio 1993) della Cei: «è necessario, quindi, aiutare i divorziati risposati, che desiderano accostarsi ai sacramenti, a comprendere che il significato profondo dell'atteggiamento della Chiesa nei loro confronti non è quello dell'esclusione discriminatoria delle persone, bensì quello dell'autentico rispetto di tutte le persone e di tutti i valori in gioco e, soprattutto, quello della sua fedeltà al Vangelo. Bisogna anche aiutarli ad accettare la loro impossibilità a ricevere l'Eucaristia come appello alla conversione. Nello stesso tempo, senza dimenticare che Dio ha legato la grazia alla Chiesa quale sacramento di salvezza, occorre educarli a sperare sempre nella grazia di Dio, unico giudice delle coscienze. Non si deve neppure tralasciare di mostrare che la loro intima sofferenza e umiliazione possono anche essere di sostegno per altri fratelli di fede di fronte alla tentazione di infrangere il vincolo coniugale per ricorrere al divorzio e a nuove nozze» (219).

Altra caratteristica dell’azione pastorale verso i divorziati risposati è quello che chiede a tutti di «non giudicare per non essere giudicati». La Nota della Cei del ’79 già citata all’inizio chiede che si distingua l’errore dall’errante, il peccato dal peccatore: «i discepoli del Signore, nel qualificare la situazione dei divorziati risposati come disordinata, non giudicano l'intimo delle coscienze, dove solo Dio vede e giudica: i credenti, sentendo viva la loro responsabilità per i tanti doni ricevuti da Dio, lascino volentieri alla sapienza e all'amore del Signore il giudizio sulla responsabilità personale di quanti sono travolti da non facili o disordinate situazioni matrimoniali, pur non potendo riconoscere come legittima la loro posizione» (parte II, 18).

Nella prossima puntata continueremo ad illustrare quali sono le strade pensate dalla Chiesa per ricondurre questi credenti alla piena comunione e alla piena congruità tra condotte di vita e principi di fede.