Commercio illegale di armi. Ecco cos'è
Papa Francesco ha condannato domenica il commercio illegale delle armi, domandandosi se sia quest'ultimo la vera causa di certe guerre. Gli Stati vendono segretamente forniture militari. E senza dimenticare che la violenza non ha bisogno di armi moderne: basta vedere il genocidio ruandese.
«Sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra o è una guerra commerciale per vendere queste armi, o è per incrementarne il commercio illegale?» Dopo la veglia di digiuno e di preghiera per la pace, Papa Francesco è tornato a parlare dei conflitti durante l’Angelus allargando il dibattito alle cause della guerra: «No al commercio e alla proliferazione delle armi. Preghiamo perché cessi subito la violenza e la devastazione in Siria e si lavori con rinnovato impegno per una giusta soluzione del conflitto fratricida». In poche parole il Santo Padre è riuscito a ribadire il “no” all’intervento militare che gli Stati Uniti con alcuni alleati stanno mettendo a punto e a esprimere sostegno a un negoziato che ormai solo la Russia sembra propugnare. L’intervento di Papa Francesco ha un valore politico senza precedenti soprattutto di fronte a un’Europa che, a parole, si dice contro la guerra, ma nei fatti, sottoscrive, come ha fatto anche l’Italia, un documento che sostiene la “forte risposta” voluta da Washington. Impossibile non notare che di fronte a un’opinione pubblica europea (ma anche americana) contraria all’intervento militare il Papa riesce a rappresentare il sentire comune in modo più deciso rispetto ai governi e soprattutto privo di ambiguità rispetto ai governi. Un risultato paradossale per un’Unione Europea che non ha voluto porre nelle sue fondamenta istituzionali e culturali le radici cristiane.
L’iniziativa “politica” contro l’intervento internazionale trova conferma nel vertice tenuto con gli ambasciatori della Santa Sede incentrata sulla posizione del Vaticano rispetto alla crisi siriana. Sul tema della guerra il Pontefice ha utilizzato un paradosso di facile breccia nelle coscienza comune ponendo il dubbio che il commercio illecito delle armi sia la causa e non solo il “carburante” che alimenta la guerra. Una provocazione che non condanna in assoluto tutte le guerre (la dottrina della Chiesa riconosce le guerre "giuste" per la difesa) ma che rispetto al conflitto siriano sembra prendere di mira i Paesi che armano clandestinamente le milizie ribelli e soprattutto quelle islamiste legate ad Al Qaeda per rifornire le quali solo sauditi e qatarini hanno investito miliardi di dollari: il solo Qatar si stima abbia speso in due anni almeno tre miliardi di dollari per acquistare e inviare ai miliziani 3.500 tonnellate di armi e munizioni attraverso i confini turco e giordano.
Se per commercio illegale intendiamo le forniture di armi e munizioni che sfuggono a contratti tra governi legittimi allora i ribelli siriani sono dotati in buona parte di equipaggiamenti di origine illecita, come lamenta del resto il regime di Damasco. La differenza tra trafficare armi a milizie irregolari ed equipaggiare movimenti che combattono per la libertà contro una tirannia è solo questione di sfumature politiche. I partigiani europei che combattevano i nazisti venivano armati dagli anglo-americani ma erano considerati “banditen” dai tedeschi così come i movimenti di guerriglia che negli anni ’80 combattevano i regimi filosovietici in Afghanistan, Angola e Mozambico erano finanziati e armati dall’amministrazione Reagan che coniò il termine “freedom fighters” ma per Mosca e i suoi alleati erano terroristi. In Siria dovremmo forse definire legittime le armi russe inviate al governo siriano e illecite quelle fornite più o meno sottobanco da arabi, turchi e statunitensi?
Il mercato delle armi solitamente si sviluppa dove i conflitti esistono o potrebbero esplodere. Non è un caso che oggi le spese militari più ingenti vengono registrate in Medio Oriente e in Asia Orientale dove i conflitti interni, la minaccia portata dal programma nucleare dell’Iran e dal potenziamento cinese generano timori nei Paesi vicini che “corrono alle armi”. Il commercio illegale, diretto a fornire armi a Paesi sotto embargo o a movimenti insurrezionali, è quasi sempre gestito da Stati o da organismi riconducibili a singoli Paesi o alleanze che in alcuni casi si appoggiano su trafficanti e “liberi professionisti” per non rischiare coinvolgimenti diretti difficili da giustificare. I servizi d’intelligence arabi, turchi e occidentali fornirono due anni or sono armi pesanti ai ribelli libici nonostante sulla Libia gravasse un embargo totale sulle armi stabilito dall’Onu ma che in realtà era in vigore solo per impedire forniture agli uomini di Gheddafi.
Non mancano le eccezioni che riguardano però i conflitti (il numero di morti giustifica l’utilizzo di questo termine) tra Stati e organizzazioni malavitose che hanno assunto le caratteristiche di forze paramilitari. In Messico, dove o scontro tra lo Stato e i narcos provoca molti più morti (silenziosi) del conflitto afghano e solo pochi meno di quello siriano, l’ampia mole di armi diffuse ormai a tutti i livelli provengono per lo più dagli Stati Uniti attraverso canali paralleli alimentati da contrabbandieri e trafficanti. Un situazione già registrata in Colombia e oggi comune a diversi Paesi dell’America Centrale.
In ogni caso, come insegna il conflitto etnico ruandese, l’uomo è capace di compiere stermini di massa anche senza utilizzare armi. Nel 1994, in poche settimane, vennero sterminate oltre 800 mila persone, quasi tutte con bastoni e machete.