Come le foglie d’autunno: un’immagine che ha fatto la storia letteraria
Omero paragona le stirpi degli uomini alle foglie nate a primavera che vengono poi gettate a terra dal vento. Nel VI libro dell’Eneide Virgilio paragona le anime morte alle foglie che cadono a terra nel bosco al primo freddo dell’autunno. Anche molti grandi poeti moderni e contemporanei si sono avvalsi dell’immagine delle foglie per descrivere la condizione umana: Shakespeare, John Milton, Leopardi, Ungaretti. L’immagine malinconica e triste delle foglie entra così profondamente nell’immaginario simbolico collettivo occidentale.
Da sempre, già dalla letteratura greca, la caducità e la precarietà dell’esistenza sono state espresse con l’immagine delle foglie in autunno, che ha affascinato tanti grandi poeti, tra gli altri Omero, Semonide di Amorgo, Mimnermo, Bacchilide, Apollonio Rodio.
Nell’Iliade (VI, vv 146-149) Omero paragona le stirpi degli uomini alle foglie nate a primavera che vengono poi gettate a terra dal vento. Glauco, guerriero di Licia alleata di Troia, e Diomede, greco, stanno per sfidarsi in battaglia. Diomede chiede a Glauco l’identità per essere certo di combattere contro un uomo e non contro una divinità dell’Olimpo. Glauco allora risponde:
O Tidide [Diomede] magnanimo, perché proprio chiedi la stirpe?
Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;
le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva
fiorente le nutre al tempo di primavera;
così le stirpe degli uomini: nasce una, l’altra dilegua.
Nel dialogo i due combattenti si riconoscono e si ricordano del precedente vincolo di ospitalità tra loro sorto, decidono di non battersi più e di scambiarsi doni.
Tra il VII e il VI secolo a. C. il poeta greco Mimnermo riprende la similitudine, modificando, però, il paragone, perché il confronto è instaurato con la vita della singola persona, non più con le stirpi degli uomini:
Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età,
Ma le nere dee ci stanno a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte. Fulmineo
precipita il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.
Nella lirica manca la dinamicità che caratterizza l’immagine omerica, in cui le foglie sono mosse dal vento in diverse direzioni. Assente è pure il senso delle successioni delle esistenze trasmesso dal susseguirsi immediato di chi nasce e chi muore. In Mimnermo domina la nota languida e malinconica per cui la feconda giovinezza dura per poco tempo lasciando velocemente spazio alla vecchiaia. E allora è preferibile morire.
Nel VI libro dell’Eneide Caronte sta a guardia del fiume e accompagna le anime da una sponda all’altra. Virgilio paragona le anime morte, assiepate presso il fiume Acheronte in attesa di passare all’altra riva sul vascello del traghettatore Caronte, alle foglie che cadono a terra nel bosco al primo freddo dell’autunno:
Qui tutta una folla ammassandosi sulle rive accorreva,
donne e uomini, corpi liberi ormai dalla vita,
di forti eroi, fanciulli e non promesse fanciulle,
giovani messi sul rogo davanti agli occhi dei padri:
tante così nei boschi, al primo freddo d’autunno,
volteggiano e cadono foglie, o a terra dal cielo profondo
tanti uccelli s’addensano, quando, freddo ormai, l’anno
di là dal mare li spinge verso le terre del sole.
Virgilio non paragona più le stirpi degli uomini o le singole vite delle persone alla fulmineità della vita delle foglie. Il poeta latino confronta il numero delle anime dei defunti in attesa di passare l’Acheronte con la quantità delle foglie che cadono in autunno. In ogni caso l’immagine trasmette ancora l’impressione della fugacità dell’esistenza.
Descrivendo le anime che attendono di salire sul vascello, Virgilio riprende pedissequamente i versi di cui già si è avvalso nelle Georgiche quando racconta la discesa agli Inferi di Orfeo attraverso le «fauci del Tenaro, porte profonde di Dite, e nel bosco nebbioso di oscura paura». Orfeo vuole affrontare «i Mani e il re tremendo e i cuori incapaci di impietosirsi alle preghiere umane», intende commuovere gli dei Plutone e Proserpina per ricondurre così Euridice sulla Terra.
Mossi dalla bellezza del canto di Orfeo, gli dei cedono, infine, alle sue richieste. Nella narrazione dell’aldilà descritto nelle Georgiche non compare neppure una geografia elementare dell’Ade. Sono citati pochi nomi antichi e mitici dell’Èrebo, il canneto del Cocito e la palude stigia, abitati dalle Eumenidi e da Cerbero con tre teste. Viene nominata soltanto la pena del condannato Issione, che gira ininterrottamente legato a una ruota, che si ferma per l’occasione, di fronte al canto.
Nel VI libro dell’Eneide le anime degli insepolti non possono attraversare il fiume, ma devono aspettare per cent’anni lungo la sponda, se il loro corpo non viene trovato prima e sepolto.
Enea incontra allora il proprio compagno Palinuro, morto insepolto, e discorre con lui. Infine, si avvicina alla riva dell’Acheronte dove Caronte cerca di spaventarlo e di dissuaderlo dal salire sulla barca, dal momento che è ancora vivo. Solo l’intervento della Sibilla e la vista del ramo d’oro convincono il traghettatore ad accoglierlo nel vascello con la profetessa.
Ignaro della lingua greca, Dante non mutua l’immagine delle foglie dei poeti greci, ma dalla similitudine di Virgilio. Così scrive:
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Anche nei versi di Dante ritroviamo la stagione dell’autunno, ma l’accento nel confronto è posto sull’ordine con cui le anime si gettano nella barca una dopo l’altra, proprio come da un albero cadono le foglie una in successione all’altra. Anche in Dante, alla fine, la quantità è rilevante, perché tutte le foglie cadono ai piedi dell’albero.
Anche molti grandi poeti moderni e contemporanei si sono avvalsi dell’immagine delle foglie per descrivere la condizione umana, scrittori inglesi come William Shakespeare (1564-1616) e John Milton (1608-1674) o italiani come Giacomo Leopardi (1798-1837) e Giuseppe Ungaretti (1888-1970). Nessuno di essi rivela, però, una chiara ripresa dei versi danteschi o di quelli omerici o virgiliani. Piuttosto si avverte come l’immagine malinconica e triste delle foglie sia entrata profondamente nell’immaginario simbolico collettivo occidentale.
Nel sonetto LXXIII Shakespeare invita la donna amata a guardare i segni che il tempo ha lasciato sul proprio volto. La stagione della vita che sta vivendo è paragonata alla condizione delle foglie gialle che pendono tremolanti in autunno:
Contempla in me quell’epoca dell’anno
Quando foglie ingiallite, poche o nessuna, pendono
Da quei rami tremanti contro il freddo,
Nudi cori in rovina, ove dolci cantarono gli uccelli.
Nel Frammento XLI dei Canti, composto tra il 1823 e il 1824, libera traduzione di un frammento elegiaco la cui paternità non è certa (potrebbe essere di Semonide di Samo o di Simonide di Ceo), Leopardi riprende l’immagine delle foglie come simbolo della caducità umana. Le foglie e l’uomo hanno avuto in sorte la stessa natura, ma pochi ne sono coscienti:
Umana cosa picciol tempo dura,
e, certissimo detto
disse il veglio di Chio [Omero],
conforme ebber natura
le foglie e l’uman seme.
Ma questa voce in petto
raccolgon pochi.
Ne L’allegria, la prima delle raccolte di Ungaretti, confluita poi nel libro che comprende tutte le sillogi, intitolato Vita di un uomo, il poeta racconta l’esperienza traumatica della guerra in trincea come soldato semplice, al fronte, prima quello italiano, poi quello francese. Di fronte alle atrocità della guerra Ungaretti sente l’esigenza di scrivere.
Nella poesia Soldati il poeta si trova sul fronte francese, accampato con il suo reggimento in un bosco presso Courton. Dopo l’uscita della Russia dal conflitto, la Germania ha ammassato le proprie truppe sul fronte francese per sferrare l’attacco decisivo. L’Italia invia ben venticinquemila soldati. Almeno quattromila muoiono negli scontri tra giugno e luglio del 1918 presso il bosco di Courton. Le mitragliatrici tedesche abbattono i soldati nemici che cadono come le foglie in autunno dagli alberi.
Ecco il testo:
Soldati Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
La datazione della poesia attesta che sono trascorsi due anni dai versi composti sul fronte italiano del Carso. Il primo verso presenta la condizione esistenziale dell’uomo. Il verbo latino «sto» significa «stare in piedi» e ben documenta la situazione del soldato in armi, pronto a combattere, simbolo della condizione umana universale. La congiunzione «come» collocata a fine verso in posizione forte introduce la similitudine dell’uomo con le foglie in autunno, stagione che simboleggia la vecchiaia e l’ingresso verso la conclusione della vita.
Le foglie d’autunno cadono come i soldati sotto il fuoco delle armi tedesche. La scrittura, orientata nella direzione della scarnificazione del verso, dell’abolizione della punteggiatura, dell’espressione lapidaria, dell’uso del blanchissement (lo spazio bianco) per scolpire la poesia, è rivelatrice del tentativo del poeta di andare al cuore delle cose e della vita, senza orpelli retorici e paludamenti che possano nascondere l’evidenza della realtà.