Come affrontare l'emergenza dopo Parigi
Terrorismo. Si devono investire più risorse nella formazione delle forze dell'arabo, affinché conoscano l'arabo e siano capaci di muoversi nelle comunità di immigrati. Investire nella sorveglianza del Web. Istituire una procura nazionale antiterrorismo. E ripristinare un Comitato per l'islam italiano.
Combattere il terrorismo non è mai stata impresa semplice, ma oggi le aggressioni dell’ISIS, di Al Qaeda e di chi raccoglie il loro invito a spargere terrore in Occidente esigono livelli superiori di attenzione e di azione. Esigono la volontà di investire più che di lanciare appelli verbosi o di produrre mielosa solidarietà: investire non in chiacchiere, ma in denaro, in uomini, in intelligenza e in coraggio.
In denaro, anzitutto, cioè in mezzi. Il terrorismo non si combatte a parole. L’Italia è da tempo attrezzata con le proprie leggi e con un qualificato sistema di sicurezza; dopo l’11 settembre 2001, e soprattutto dopo gli attentanti di Londra e di Sharm-el-Sheik del 2005, essa ha adeguato le disposizioni di prevenzione e di repressione in modo esemplare rispetto ad altri Stati occidentali. Quel che manca non sono le norme: è un’azione di governo della sicurezza che elimini lacune organizzative e fornisca agli operatori ulteriori indispensabili strumenti. Il profilo del terrorista che agisce da solo o con pochissimi complici non è una novità, e meraviglia che qualcuno la consideri una sorpresa: Theo Van Gogh, regista olandese “colpevole” di aver filmato un corto sulla donna nelle società islamiche, fu ucciso nel novembre 2004 da Mohammed Bouyeri, un giovane solitario che fino a un paio d’anni prima conduceva una vita tranquilla, e poi aveva iniziato a frequentare siti e soggetti ultrafondamentalisti: prima dell’omicidio costui non era mai stato controllato, benché trovato in possesso di scritti apologetici dell’eversione di matrice islamica. I nomi di Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, i fratelli responsabili della strage della maratona di Boston nell’aprile 2013, erano stati segnalati alla polizia del luogo, ma invano. Era da solo il libico Mohammed Game, che il 12 ottobre 2009 faceva esplodere una bomba all’ingresso della caserma S. Barbara di Milano, ma i suoi scritti erano ben noti nella rete.
Una minaccia così parcellizzata, le cui caratteristiche trovano conferma negli attentati di Parigi, esige fra gli uomini dei servizi, i poliziotti e i carabinieri anzitutto una conoscenza più estesa della lingua araba. Non si può fare affidamento esclusivo sugli interpreti, sia perché costoro sono sempre di meno e sempre più minacciati, sia perché esiste un margine di affidabilità, derivante dalla formazione: un conto è che un colloquio sia ascoltato e compreso da un professionista della sicurezza, un conto che le frasi siano percepite e decriptate da una persona estranea e spesso straniera, la cui esegesi spesso genera equivoci. A fianco a ciò, vanno moltiplicati i corsi di formazione del retroterra ideologico e delle modalità di attacco dei possibili attentatori: anche questi costano. Su questo versante la spending review fa danni, e quelli già prodotti vanno rimediati al più presto.
Investire in uomini. Ieri il ministro Alfano ha opportunamente richiamato l’importanza della rete, e dei messaggi di reclutamento, indottrinamento e incitamento che viaggiano attraverso di essa; è qualcosa che però stride col ridimensionamento – in corso da mesi – della Polizia postale, che è la realtà più attrezzata per monitorare internet e per individuare e fermare i messaggi stessi. Stride con la soppressione di tanti presidi di polizia, soprattutto alle frontiere e sui mezzi di trasporto. Come stride con la difficoltà a remunerare trasferte e straordinari. Come si fa a seguire soggetti pericolosi quando si ha la certezza che il lavoro oltre l’ordinario non viene remunerato?
A proposito degli uomini, se qualche modifica normativa va fatta, è per applicare al versante terrorismo modalità di intervento giudiziario simili a quelle del contrasto alla mafia: da oltre vent’anni la criminalità mafiosa è repressa grazie a un coordinamento delle indagini che fa perno sulle direzioni distrettuali antimafia (il cui territorio di competenza è la corte di appello, più ampio di quello dei tribunali) e della direzione nazionale antimafia. Non esiste qualcosa di simile per il terrorismo: istituire una procura nazionale antiterrorismo, con sedi territoriali distrettuali, ovvero una sezione ad hoc nell’attuale sistema delle procure antimafia, otterrebbe il positivo duplice risultato di indagini meno frammentate e di professionalità più elevate; e se alla specializzazione degli inquirenti si facesse corrispondere la specializzazione dei giudicanti, con la costituzione di sezioni dedicate a queste vicende criminali, si eviterebbero fraintendimenti ed equivoci grazie alla più attenta conoscenza della realtà di fatto sottoposta al giudizio. Si eviterebbe, per es., di sostenere, come è accaduto in sentenze pronunciate in Italia, che chi faceva attentati in Iraq non era terrorista ma “resistente”, o che non vi fosse la prova della natura terroristica di organizzazioni invece iscritte nelle black list dell’Onu o dell’Ue, come il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento.
Investire in intelligenza, oltre che in intelligence. Va messo da parte il buonismo di chi pensa che nel confronto con i fedeli dell’islam il problema siamo noi e non loro, ma anche il radicalismo di chi afferma che tutti i musulmani sono terroristi. È un’illusione immaginare di sconfiggere il terrorismo senza un collegamento organico con le comunità islamiche presenti in Italia non connotate da tendenze ultrafondamentaliste: un lavoro in tal senso era iniziato con profitto qualche anno fa al Viminale, con il Comitato per l’islam italiano, ma non è stato proseguito. Va ripreso e rilanciato, non all’insegna dello scambio di buone intenzioni, bensì – come è avvenuto fino al 2011 – della individuazione concordata di buone prassi: dalla regolamentazione dei luoghi di culto allo statuto delle associazioni islamiche, dalla trasparenza nella predicazione degli iman alla segnalazione e marginalizzazione degli esagitati, puntando su una base etica e giuridica realmente condivisa nell’interesse di tutti.
Investire in coraggio. Chi oggi colpisce Parigi progetta attentati ovunque in virtù di appelli alla guerra santa che provengono dai luoghi di insediamento dell’Isis e di Aò Qaeda. Colpire le basi di questi ultimi è indispensabile per indebolirne la capacità di attrazione, di propaganda e di semina del terrore. Anche per questo la difficile costruzione di una coalizione ampia, che parta da Usa e Ue ma includa Stati a maggioranza islamica, è il modo migliore per dimostrare nei fatti che il nemico non è una confessione religiosa ma sono i criminali tagliagole, e che si vuole realmente debellare questi ultimi. Nei Parlamenti nazionali e in quello di Strasburgo sarebbe importante ascoltare un programma di lavoro in tale direzione: il resto, deplorazioni incluse, sono chiacchiere.