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LIBERTA' DI RELIGIONE

Coltello rituale vietato, a quali valori appellarsi

Un indiano sikh nel 2013 era stato sorpreso a girare per Goito con un kirpan, coltello sacro lungo 20 centimetri. Due giorni fa la Cassazione ha confermato la sua condanna. Nella sentenza troviamo un principio ineccepibile: limitare la libertà religiosa quando mette a rischio la sicurezza. Ma anche una certa confusione: un immigrato dovrebbe conformarsi ai nostri valori. Quali?

Editoriali 17_05_2017
Un sikh con kirpan alla cintola

Un indiano sikh nel 2013 era stato sorpreso a girare per Goito, cittadina del mantovano, armato di un kirpan, coltello sacro lungo quasi 20 centimetri. Il Tribunale di Mantova nel 2015 lo aveva condannato a pagare 2000 euro per porto abusivo d’armi, nonostante l’indiano, appellandosi all’art. 19 della Costituzione che tutela la libertà di religione, avesse sostenuto che il pugnale al pari del turbante “era un simbolo della religione e il porto costituiva adempimento del dovere religioso”. Corsi e ricorsi e arriviamo alla sentenza della Cassazione di due giorni fa che conferma la condanna.

Gli ermellini cosa dicono? Prima cosa: bene la libertà religiosa, ma c’è un limite al suo esercizio che è dato da quelle leggi che tutelano l’ordine pubblico. “Nessun ostacolo – scrivono i giudici – viene in tal modo posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto, e all’osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume. Proprio la libertà religiosa, garantita dall’art. 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quella della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula ‘dell’ordine pubblico’”.

La Cassazione fa poi riferimento all’art. 9 della Convenzione dei diritti dell’uomo «che stabilisce che “la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica o per la protezione dei diritti e della libertà altrui"». La limitazione della libertà religiosa è ragionevole «se l’uso di quella libertà ostacola l’obiettivo perseguito di tutela dei diritti e delle libertà altrui, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica».

E come la mettiamo con l’accoglienza del diverso, l’integrazione e il pluralismo religioso? “La società multietnica è una necessità – continua la Suprema Corte - ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere. […] In una società multietnica la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’articolo 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”. 

Fin qui bene. In buona sostanza si dice che la libertà personale, tra cui un suo sottoinsieme è quella religiosa, non può attentare all’ordine pubblico. Indossare un turbante ed andare in giro armato non sono la stessa cosa. Il coltello kirpan sarà pure sacro per gli indiani, ma prima di tutto per sua natura è un’arma. Nulla di nuovo sotto il sole: non posso entrare con un innocuo casco da motociclista in testa in una banca o portarmi dei bastoni allo stadio a cui attaccare le bandiere. Posso assegnare qualsiasi significato tra i più innocui agli oggetti, ma poi calati in certi contesti quegli oggetti potrebbero essere usati in modo improprio e quindi è bene limitarne l’uso. A maggior ragione quando si tratta di un coltello. Se una fantasiosa religione del futuro considerasse sacro un kalashnikov che facciamo? Lasciamo che i loro adepti possano andare in giro indisturbati imbracciando quell’arma?

Però nella sentenza non ci sono solo luci, ma anche alcune ombre. Innanzitutto i giudici ci dicono che gli usi e costumi considerati legittimi dall’ordinamento giuridico di provenienza del cittadino straniero non possono venire recepiti supinamente dal nostro di ordinamento. Occorre verificarne la compatibilità con l’ordine pubblico italiano. Domanda: e allora perché non si è applicato questo stesso principio anche nel caso dei “matrimoni” gay celebrati all’estero e ai casi di riconoscimento legale, avvenuto sempre oltre i confini italici, della doppia paternità in caso di filiazione di coppia gay? Anche questi costumi ed usi stranieri confliggono con l’ordine pubblico. Due pesi e due misure. Ma giudice che vai usanza legale che trovi.

Altra ombra nella sentenza. La Prima sezione penale scrive: “è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina”. Infine si aggiunge che “la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”. 

Il principio è ovviamente condivisibile, ma ci viene da domandare: a quali valori del nostro Paese fanno riferimento i giudici? Quelli costituzionali? Ma questi sono stati violati più e più volte da giudici e parlamento varando leggi sull’aborto, divorzio, fecondazione artificiale e unioni civili e pronunciando negli anni sentenze costituzionalmente letali. Oppure si fa riferimento ad altri imprecisati “valori”? Ad esempio l’autodeterminazione, puntello che il disegno di legge sulle Disposizione anticipate di trattamento sta usando per introdurre l’eutanasia nel nostro Paese, che il Ministero dell’istruzione ha già adoperato per introdurre parallelamente l’educazione gender nelle nostre scuole e che la legge 194 usò per legalizzare l’aborto procurato. Oppure altri: il diritto alla dignità del morire che adombra l’eugenetica, la maternità sociale per legittimare la doppia genitorialità lesbica, il superiore interesse del minore per riconoscere la liceità della pratica dell’utero in affitto. Ecco di fronte a questi “valori” a cui il povero indiano sikh dovrebbe adeguarsi, verrebbe quasi da consigliargli di continuare a girare armato per difendersi da tutta questa italica violenza culturale.