Colombia, in 5 milioni per difendere la vita
Nel paese sudamericano cattolici, musulmani ed ebrei si mobilitano per restringere le maglie della legge che regolamenta l'aborto.
Oltre quattro milioni di firme in favore della vita e contro l’aborto in Colombia. È il risultato dell’iniziativa promossa dalla Conferenza episcopale del paese che intende favorire l’emendamento all’articolo II della Costituzione ed impedire, così, «tutte le possibilità di aborto e di eutanasia»
La bomba esplose nel 2009 quando a Medellín – per i colombiani “la ciudad de la eterna primavera”, per gli europei semplicemente la capitale del narcotraffico mondiale, balzata agli onori delle cronache negli anni '80, complice il famigerato “cartel” di Pablo Escobar – qualcuno ebbe l'iniziativa di dare vita a una “Clinica della donna” votata alla diffusione di ideologie femministe.
Fin qui nulla di grave: infatti nessuno ebbe da ridire in merito alla nascita di un luogo in cui si educasse alla contraccezione o si offrissero cure specifiche alla gran parte della popolazione che non ha accesso a servizi ginecologi e ostetrici, in quanto sprovvista di assicurazione sanitaria. Il vero problema era l'approccio decisamente sbarazzino nei confronti dell'interruzione volontaria di gravidanza, che di lì a poco fece ribattezzare la struttura – ancora in fase progettuale - “Clinica dell'aborto”.
Secondo l'associazione Pro Vida del dipartimento di Antioquia (di cui Medellín è capoluogo) l'azienda sanitaria locale avrebbe legittimato «una visione positiva della promiscuità sessuale che, a sua volta, originerebbe una domanda crescente di aborti». Si ipotizzava l'esistenza di reparti adibiti a interventi di raschiamento; «sale chirurgiche dal sapore di camere mortuarie», denunciarono gli attivisti. Nonché una bella salassata per le tasche dei cittadini, considerato che la struttura sarebbe costata 17mila milioni di pesos colombiani (5,5 milioni di euro).
Ne seguì uno scontro ideologico-verbal-internettiano culminato in una seria di proteste in piazza, limitate sempre alla “città dell'eterna primavera”.
Se questa fosse una fiaba, la questione verrebbe archiviata non appena posta la parola fine (cui va aggiunto l'aggettivo “lieta”). Basta andare indietro di nove mesi, per imbattersi nell'epilogo: a novembre, il dirigente dell'azienda sanitaria dichiarò che il progetto «era stato abortito» in quanto «non necessario per l'area metropolitana».
«Un trionfo della cittadinanza e un sì alla vita», commentarono soddisfatti da Pro Vida. Ma la questione, per i colombiani, non poteva chiudersi così. Perché il dibattito, nel frattempo, aveva interessato l'intero Paese: Cali, Cartagena, Bogotá o Barranquilla. La Colombia - luogo in cui quasi ogni bambino ha come secondo nome “María” o “Jesús”, in cui la novena al Divino Niño è un affare che coinvolge l'intera famiglia e ogni giornata di scuola inizia con canzoncine dedicate al Creatore - non poteva e non voleva accettare che proprio lì, ai piedi delle Ande, l'aborto legittimato, quasi intimato, avesse trovato terreno fertile.
Perché proprio in quella terra, a qualche chilometro di distanza, solo 50 anni prima il Nobel Gabriel García Márquez aveva mirabilmente narrato la sua società in Cent'anni di solitudine - divenuta la seconda opera più importante mai scritta in lingua spagnola (dopo l'intoccabile Don Chisciotte) – dando vita a un romanzo sulla prolifica e affollata saga dei Buendía: 36 tra padri, madri, figli, nipoti, pronipoti, zii, fratelli, sorelle, cugini. E può avere il sapore di una frase trita e ritrita, ma la famiglia è realmente alla base della società colombiana. Questo “Gabo” lo sapeva bene, così come tutti i suoi connazionali che, da due anni a questa parte, hanno aderito ai movimenti per la tutela della vita, rimpinguandone le fila con la propria firma.
Hanno un sito di riferimento “Unidos por la vida” (www.unidosporlavida.com) nel quale confluiscono tutte le organizzazioni e fondazioni che concepiscono «la vita come un diritto fondamentale che non deve essere ponderato, perché nel momento della fecondazione si forma un dna diverso da quello della madre, che stabilisce come questo essere in via di sviluppo sia un individuo della specie umana meritevole di protezione per sopravvivere. Il trauma dell'aborto dura tutta la vita: ecco perché bisogna appoggiare le donne incinte. La soluzione non è distruggere due vite».
E, forti dell'appoggio dei tanti sostenitori, quelli della piattaforma “Unidos por la vida” hanno in serbo grandi progetti per il futuro del Paese puntando, addirittura, a modificare la Costituzione.
Sono già state raccolte 5 milioni di firme – non soltanto di cattolici, ma anche di protestanti, ebrei e musulmani – per presentare al governo un atto legislativo che complementi lo striminzito articolo 11 (“El derecho a la vida es inviolable. No habrá pena de muerte”; ovvero: “Il diritto alla vita è inviolabile. Non ci sarà pena di morte”). Il segretario generale della Conferenza episcopale colombiana, Monsignor Juan Vincente Córdoba, ha appoggiato pubblicamente l'iniziativa, precisando che l'intento è quello di vietare l'aborto e l'eutanasia.
Martedì 2 agosto, il leader del partito conservatore, José Dario Salazar, ha presentato il progetto di riforma costituzionale il cui nucleo centrale è l'abolizione delle tre casistiche in cui l'aborto è concesso: rischio di morte per la madre, gravidanza come conseguenza di uno stupro o feto con gravi malformazioni.
«Se l'atto costituzionale passasse – ribatte Eduardo Cifuentes, ex presidente del tribunale di Bogotá -, sarebbe un passo indietro, contro i diritti della donna e del libero sviluppo della personalità».
Qualche giorno fa il popolo colombiano ha organizzato un'intera giornata di preghiera: una “Vigilia por la vida” nella capitolina Iglesia Nuestra Señora de las Nieves. Sperano di riuscire a portare a termine la missione, facendo modificare l'articolo 11 grazie alle firme dei 5 milioni di sostenitori. Non dovrebbe essere tanto semplice, ma sono speranzosi. Dalla loro, fanno sapere, hanno un prezioso alleato: Dio.