Cirinnà disastrosa e non soltanto per le unioni gay
L’intera discussione sul disegno di legge Cirinnà, approvato al Senato, si è finora incentrata sui diritti delle coppie omosessuali e sull’eventuale possibilità di adottare (la cosiddetta stepchild adoption). Il disegno di legge, tuttavia, muove da assunzioni che vanno ben oltre i diritti delle coppie omosessuali. E le conseguenze della sua approvazione potrebbero essere ben più rilevanti del riconoscimento giuridico di queste ultime.
Nei giorni infuocati della discussione in Senato del ddl Cirinnà, ci siamo abituati a riflettere sulle parti del disegno di legge riguardanti le unioni tra persone dello stesso sesso. L’intera discussione è incentrata sui diritti delle coppie omosessuali e sull’eventuale possibilità di adottare – da parte di uno dei due partner – il figlio naturale dell’altro partner (la cosiddetta stepchild adoption).
Il ddl Cirinnà, tuttavia, muove da assunzioni che vanno ben oltre i diritti dellecoppie omosessuali. E le conseguenze dell’approvazione del maxiemendamento che lo ha sostituito saranno ben più rilevanti del riconoscimento giuridico di queste ultime. Cito dall’introduzione del ddl: «unione civile definisce il rapporto tra due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, che vogliano organizzare la loro vita in comune» e «la disciplina proposta, con uno statuto normativo flessibile e “leggero”, intende fornire ai cittadini che scelgano forme non tradizionali di convivenza la necessaria tutela delle relative situazioni giuridiche soggettive, evitando così ogni forma di discriminazione ai loro danni». Secondo il ddl, infatti, «è necessario dare un riconoscimento giuridico a una realtà così rilevante socialmente da non poter più essere ignorata dalla legge».
L’argomento di fondo è il seguente: visto che le unioni non-tradizionali sono ormai una realtà socialmente rilevante e visto che i loro membri sarebbero discriminati se tali unioni non fossero regolamentate giuridicamente, si rende necessario introdurre una nuova figura giuridica (quella dell’unione civile) e regolamentare appunto i diritti e i doveri dei suoi membri. Al centro del ddl, dunque, non vi sono né esclusivamente, né primariamente le coppie omosessuali. E la questione culturale che si solleva è di non poco conto. Stando al disegno di legge, lo Stato è chiamato a consentire ed assecondare una tendenza già presente nella nostra società: quella alla “liquidità” nei rapporti di coppia. L’unione civile – anche tra coppie eterosessuali – dovrebbe godere di numerosi diritti assimilabili a quelli del matrimonio (civile o religioso). Tuttavia, a differenza del matrimonio, essa potrebbe essere instaurata e, soprattutto, sciolta con maggiore facilità, fermi restando certi doveri “residui” (ad esempio, nei confronti dei figli). Il maxiemendamento che ha sostituito il ddl segue la medesima tendenza e, anzi, riesce persino ad accentuarla, eliminando l’obbligo di fedeltà, allentando gli obblighi di sostentamento e accelerando le pratiche di separazione.
Qui non si tratta soltanto di garantire i diritti di certe coppie (quelle omosessuali) che non possono contrarre il matrimonio – almeno secondo gli attuali ordinamenti. Lo Stato propone che anche le coppie che possono contrarre il matrimonio (quelle eterosessuali) abbiano la facoltà di accedere ad un “surrogato” del matrimonio stesso, cioè l’unione civile. Tale “surrogato” prevede molti diritti, ma è appunto più “liquido”. Esso consente che due persone possano “organizzare la loro vita in comune” in una forma più elastica di quella matrimoniale e, per sua natura, potenzialmente più instabile. C’è da chiedersi perché si sia tentata questa mossa. Che interesse ha lo Stato nel sostenere un istituto alternativo e concorrenziale rispetto a quello matrimoniale? Le unioni di fatto eterosessuali sono appunto unioni di fatto, non di diritto. Le persone possono impegnarsi in tali unioni per molteplici motivi: per “sperimentare” la vita insieme; perché non credono in un impegno “vita natural durante” come quello richiesto dal matrimonio cattolico; perché non sono interessati al matrimonio stesso; e per mille altre ragioni.
Nondimeno, quando si parla di diritti della “coppia” e dei membri della coppia, di comunione o separazione dei beni, un istituto già esiste: quello del matrimonio (sia pure del solo matrimonio civile). Che bisogno abbiamo di un nuovo istituto – almeno per le coppie eterosessuali? Certamente possono insorgere situazioni nelle quali i due conviventi non sposati debbano vedersi riconosciute alcune prerogative. Ad esempio, nell’assistenza al partner in ospedale, in un atto di successione, o semplicemente nella delega a ritirare un documento. Queste prerogative sono già in larghissima misura riconosciute nel nostro ordinamento senza introdurre nuove forme di convivenza alternative al matrimonio. Ma il problema evidentemente non è questo. Il problema – e l’assunto di fondo di tutto il discorso – è che, secondo molti politici ed intellettuali, la nostra società sta appunto divenendo sempre più “liquida”, che deve essere così e che sarà sempre più così.
Nel contesto di tale “liquidità”, bisogna trovare il modo di garantire comunque certi diritti. Ma una cosa “liquida” non ha appunto forma: essa assume solo la forma dei propri contenitori. La forma delle unioni di fatto è transeunte e sarà ben presto rimpiazzata da qualcos’altro – purché si tutelino i diritti individuali e un sempre maggior numero di essi. Nuove saranno le possibilità sperimentate nella nostra società, nuovi saranno i diritti e nuove saranno le richieste, poiché ogni sperimentazione di fatto assurgerà legittimamente a soggetto di diritto. Nessuno vuole qui negare la “liquidità” di fatto della nostra società. Ciò che si intende negare è la sua legittimità di diritto. In primo luogo, è legittimo pensare che siano le volontà degli uomini a determinare la suddetta “liquidità”. È curioso che molti progressisti, sempre attenti a difendere qualsiasi libertà individuale, siano poi pronti a parlare di una marcia inesorabile della storia umana in certe direzioni, ignorando o sottacendo il contributo della stessa libertà individuale nell’assecondare o nel respingere tali tendenze.
La nostra società sta diventando sempre più “liquida”: e dunque? Dovrebbe forse essere così? Dovrà forse essere così per sempre? Chi pensa di avere in tasca una risposta positiva a queste domande somiglia più ad un indovino o ad un superstizioso che ad un intellettuale degno di questo nome. I processi storici hanno un inizio e, presumibilmente, un termine – nonché dei responsabili. In secondo luogo, dinnanzi a tali processi storici, conviene chiedersi: quale deve essere il ruolo dello Stato? Secondo alcuni, lo Stato dovrebbe semplicemente garantire e promuovere i diritti di volta in volta richiesti dagli individui, evitando conflitti tra individui e/o tra diritti. A detta di altri, invece (i cosiddetti “conservatori”), lo Stato deve tener bene a mente tre fatti: (1) che la società è fondata su fatti naturali di rilievo politico e su un patto tra chi vive ora, tra chi è vissuto in passato e chi vivrà in futuro; (2) che questo patto dà origine, nel corso dei secoli, ad una costruzione per sua natura fragile (la società stessa); (3) che lo Stato dovrebbe ben guardarsi dall’alterare le fondamenta di questa costruzione e, in ogni caso, dal farlo repentinamente – pena il suo crollo.
Accettare una forma più “liquida” di convivenza – in concorrenza con il matrimonio – significa, da parte dello Stato, minare l’esistenza stessa della società. Significa assecondare una tendenza storica dissolutrice verso l’atomizzazione, cioè verso l’affermazione esclusiva di interessi e desideri individuali al di là di ogni relazione interpersonale che sia foriera di un obbligo duraturo. Se un rapporto può essere cancellato con un semplice tratto di penna su un registro o con una semplice visita dal notaio per il semplice fatto che «si desidera così», se non c’è più alcun tempo per la riflessione (magari un tempo di separazione?), se ogni cosa che tiene assieme oggettivamente due persone al di là dei loro sentimenti può essere altresì fatta e disfatta in brevissimo tempo (al di là dei figli, che rimangono), quale obbligo duraturo si può stabilire tra due persone che consenta la sopravvivenza della società stessa?
Certamente vi sono matrimoni fallimentari, certamente vi sono situazioni nelle quali si deve scappare, e subito. Ma la maggior parte dei matrimoni si costituisce entro una zona grigia nella quale gli sposi, tra mille alti e bassi, si incontrano e scontrano nelle loro aspirazioni, con i loro vizi e le loro virtù. E i figli, all’interno di quei matrimoni, generalmente vogliono che i loro genitori stiano assieme, che il padre e la madre lottino contro le loro reazioni e i loro istinti immediati, che non cedano all’entropia del «le mie esigenze sono cambiate». Se lo Stato assecondasse l’idea che uno la mattina può svegliarsi e, “sentendo” un nuovo desiderio, può porre fine in un attimo alla propria “unione di fatto”, che coinvolgersi in un’unione di fatto è più semplice e meno obbligante che sposarsi (perché dà origine a moltissimi diritti con minori “intralci”), la società stessa sarebbe scossa alle proprie fondamenta. Le “cose durature”, quelle che richiedono fatica, sacrificio e dedizione, quelle “cose durature” che consentono la sopravvivenza della società, diverrebbero sempre più rare. In particolare, la fiducia verso gli altri sarebbe devastata dalla paura di perdere, per il capriccio di un istante, le persone di cui dovremmo fidarci.
Non bisogna nascondersi dietro un dito: lo Stato, con le proprie leggi ed i propri ordinamenti, può favorire o meno certi comportamenti. Di più: compiendo determinate scelte piuttosto che altre, lo Stato persegue certi fini, assecondando o meno certe forze storiche. Si può accettare la “liquidità” e l’atomizzazione che caratterizzano il nostro tempo. O ci si può ergere sulla breccia – e attendere magari che la tempesta passi.