Cicerone, l'amicizia è una via al bene
Cicerone riconosce il fondamento dell’amicizia nel principio «idem velle idem nolle», cioè «volere le stesse cose e non volere le stesse cose». L’amicizia è, quindi, come una strada, un metodo, un percorso in cui si fanno scelte comuni di approvazione o di dissenso per alcuni aspetti o fatti di vita.
Secondo il mos maiorum (cioè la tradizione degli antenati) romano l’amicizia non era soltanto un rapporto personale, ma era un legame che aveva un carattere eminentemente politico che univa persone appartenenti allo stesso clan familiare oppure tutti quanti gravitavano come clienti o liberti nell’ambito di un personaggio politico importante. In quest’ultimo caso i favori dei sottoposti erano ricambiati con la protezione e una piccola ricompensa economica offerte dal signore. Potremmo definire questa come un’amicizia politica e clientelare.
Nella tradizione della filosofia accademica l’amicizia, perdendo qualsiasi significato politico, assumeva un valore totalmente disinteressato ed esclusivamente personale. Nei dialoghi platonici sull’amicizia (Fedro e Liside) Platone arrivò ad affermare che l’amicizia era possibile solo tra buoni. Non occorreva che due amici avessero le stesse qualità o qualità opposte e, quindi, complementari.
Nell’Etica Nicomachea all’interno di un discorso sull’etica e sulla politica Aristotele distinse tre gradini dell’amicizia: quella basata sull’utilità, quella legata al piacere e quella fondata sulla bontà. Solo quella basata sulla bontà è vera amicizia, perché vuole il bene dell’altro. L’amicizia è, quindi, considerata un bene per tutti, indispensabile anche per chi è già felice.
Grande mediatore della cultura e della filosofia greche a Roma, Cicerone cerca anche nella concezione dell’amicizia una conciliazione tra i due mondi. Si fa, così, portavoce di un discorso che cerca di tenere assieme il vincolo politico dell’amicizia e il carattere virtuoso del sentimento.
Il dialogo di Cicerone Laelius de amicitia, scritto nel 44 a. C. e dedicato all’amico Attico, contiene l’elogio dell’amicizia. Lelio intrattiene i due generi Strabone e Scevola con il ricordo dell’amico Publio Cornelio Scipione l’Emiliano, il comandante vincitore della Terza guerra punica, defunto nel 129 a. C., pochi mesi prima rispetto all’ambientazione della vicenda.
Lelio afferma che ogni uomo tende a creare legami con i propri simili, legami che sono tanto più stretti quanto più si è vicini: i concittadini hanno rapporti più stringenti rispetto a quanto non abbiano un cittadino e uno straniero. A sua volta, in mezzo alla cittadinanza esiste una scala di relazioni: i parenti sono legati tra loro più intimamente rispetto agli estranei. Lelio afferma, poi, che esiste un legame ancora più forte rispetto alla parentela ed è l’amicizia: «Infatti in questo l'amicizia è superiore alla parentela, perché dalla parentela si può togliere l'affetto, mentre dall'amicizia no; infatti, tolto l'affetto, viene tolto all'amicizia il suo nome, mentre alla parentela rimane. Inoltre, quanta sia la forza dell'amicizia, da ciò si può benissimo capire, che dall'infinito vincolo del genere umano, che la stessa natura ha costituito, il legame diviene così stretto e così chiuso, che tutto l'affetto si instaura tra due o tra poche persone».
Per Lelio l’amicizia è il bene sommo che gli dei abbiano concesso all’uomo, alla pari della sapienza: «Alcuni danno maggior importanza alla ricchezza, altri alla buona salute, altri al potere, altri agli onori, molti anche ai piaceri. Questi ultimi sono di certo propri delle bestie, le altre cose caduche ed incerte, poste non tanto nelle nostre volontà, quanto nella volubilità del caso. Coloro invece che ripongono il sommo bene nella virtù, certo fanno benissimo, ma questa stessa virtù genera l'amicizia e la mantiene e senza la virtù non vi può essere in nessun modo amicizia».
Perché l’amicizia è un dono così grande? Perché «cosa vi è di più dolce dell’avere una persona con la quale poter parlare come a te stesso? E che gran frutto vi sarebbe nella prosperità, se non avessi qualcuno che ne godesse allo stesso modo tuo? Certamente sarebbe arduo sopportare le avversità senza uno che le sopportasse con maggior partecipazione di te. Infine tutte le altre cose che si desiderano servono ciascuna per singole cose: la ricchezza, per goderne; la potenza, per essere riverito; gli onori, per ricevere lodi; i piaceri, per dilettarsi; la buona salute, per stare lontano dal dolore e per disporre delle forze del corpo. L’amicizia racchiude in sé molte cose. Dovunque tu vada, essa è a tua disposizione».
Per Cicerone il legame di amicizia si deve improntare alla bontà e al bene reciproco. Un affetto amicale autentico mira al bene dell’altro: «Come prima legge dell’amicizia si sancisca dunque questa: chiedere agli amici solo cose oneste; fare per gli amici solo cose oneste […]. Deve essere tenuta in gran conto l’autorità degli amici che indirizzano al bene».
L’amicizia vera s’instaura, quindi, tra animi virtuosi e buoni. «Si forma un’amicizia se in qualche modo brilla una luce di virtù e se ad esso si unisce strettamente un animo affine».
Mentre combatte l’utilitarismo, il calcolo, l’opportunismo, al contempo Cicerone pone alla base dell’amicizia la virtù e la lealtà. La virtù, però, si badi bene, viene definita in un ambito ampio, quello del vivere associato e politico. Virtuoso o «bonus» è colui che possiede le virtù su cui si fonda la comunità (fides, gravitas, pietas, iustitia, liberalitas, constantia, …). Il cittadino virtuoso è colui che opera per il bene dello Stato nel rispetto del mos maiorum. Così Cicerone ha tentato l’impossibile mediazione tra il calcolo e l’utilitarismo che contraddistinguevano l’amicizia tra i Romani e il carattere disinteressato dell’amicizia nelle filosofie greche stoiche, accademiche e aristoteliche.
Cicerone riconosce il fondamento dell’amicizia nel principio «idem velle idem nolle», cioè «volere le stesse cose e non volere le stesse cose». L’amicizia è, quindi, come una strada, un metodo, un percorso in cui si fanno scelte comuni di approvazione o di dissenso per alcuni aspetti o fatti di vita.
Sarà l’immagine dei compagni di Ulisse, la «compagnia picciola» del canto XXVI dell’Inferno, a ben documentare questo concetto di amicizia e di legame tra persone che tendono agli stessi obiettivi. I compagni di Ulisse sono vecchi e ormai stanchi, dopo alcuni mesi di viaggio. Ulisse riesce allora a persuaderli con «l’orazion picciola» incentrata su ardore e desiderio di conoscenza. Così li incita: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza». In questo caso l’obiettivo comune coincide con il seguire la natura dell’animo umano, quella brama di conoscenza che è innata nell’uomo, così come anche riconosceva Aristotele e Dante stesso ricordava nel Convivio: «Sì come dice lo Filosofo nel principio della sua filosofia ogni uomo desidera naturalmente di sapere». Per Ulisse la compagnia piccola coincide con quegli amici con cui ha deciso di intraprendere il viaggio e di andare incontro al destino.