Chi si indigna per la Superlega e non sa di averla in casa
Ascolta la versione audio dell'articolo
L'Uefa che tifava per l'Italia, gli occhi chiusi sul fair play finanziario. E poi la nostra Coppa Italia direttamente gestita dalle Leghe: in questi casi il tanto sbandierato merito non c'è. Non è che la Superlega dà fastidio solo se è quella organizzata dagli altri?
Dopo la sentenza della Corte Europea si apre una opportunità per ripensare un modello di calcio finanziariamente compatibile e interattivo col territorio di riferimento
È stato interessante ascoltare le reazioni di chi amministra il calcio professionistico alla sentenza della Corte di Giustizia della Unione Europea, che spunta loro le armi per fermare il progetto Superlega. Lo slogan è quello ripetuto da anni: «Sì al merito conquistato sul campo e alla solidarietà, no al club esclusivo dei privilegiati del brand». Premesso che lo slogan andrebbe riattualizzato, visto che nell’ultimo progetto di SuperLega esistono retrocessioni e promozioni e si parla di un fondo di solidarietà gestito da un’Autorità indipendente, resta il fatto che – soprattutto in Italia – la credibilità di questo slogan in bocca ai nostri dirigenti fa sorridere, per usare un eufemismo.
Cos’altro dire infatti a gente, che ha messo in piedi una competizione – la Coppa Italia – gestita (caso unico in Europa) non dalla Federazione ma dalle Leghe: decidono loro chi invitare e infatti lasciano fuori non solo le 166 squadre del massimo campionato Dilettanti ma anche quasi tutte le 60 squadre professionistiche della serie C. Come se non bastasse alle prime 8 squadre della serie A stendono un tappeto rosso ammettendole direttamente agli ottavi di finale (basta loro eliminare 3 rivali per andare in finale) e le fanno giocare pure in casa. Questa sorta di SuperLega casereccia a loro sta benissimo. Per non parlare degli interessi del bacino d’utenza, parametro chiave per rendere più appetibili i diritti televisivi , come ha dimostrato questa estate il caso del Lecco, reo di appartenere a un paesotto di meno di 50.000 abitanti e escluso da un campionato (la serie B) che aveva conquistato per meriti sportivi. Se non avesse fatto ricorso alla Magistratura extrasportiva l’avrebbero fatto sparire…
Ma se anche ci spostiamo dai confini nazionali, l’imbarazzo resta tale: il NO dell’UEFA alla Superlega fa il paio con l’accettazione di una Superlega europea de facto, cioè quella delle squadre privilegiate che possono contare sulla proprietà diretta o indiretta di ricchi Stati sovrani che si fanno beffe del fair play finanziario o di altre che applicano il doping amministrativo perché rette da proprietà il cui denaro (di ignota o sospetta provenienza) può permettersi di ignorare la compatibilità finanziaria dell’investimento.
Perfino sui tornei per nazionali come l’Europeo abbiamo visto il presidente UEFA Čeferin tifare pubblicamente per la vittoria dell’Italia nello spareggio contro l’Ucraina, perché il nostro brand avrebbe reso più appetibile commercialmente il torneo piuttosto che si fossero qualificati i nostri rivali.
Insomma: la Superlega fa schifo solo se è quella organizzata dagli altri. Par di capire quindi che, nel dibattito sul tema, di mezzo ci siano questioni di potere più che di filosofia. Cosa augurarsi? Difficile prevedere quel che succederà, ma forse non si sbaglia se si ipotizza uno scenario dove alla fine convivano due diversi modelli: quello ultraprofessionalizzato e globalizzato degli sperperi finanziari, “drogato”, con pochi vincoli e controlli, dove sia molto difficile farsi buttar fuori una volta conquistato l’invito a partecipare e un modello invece sicuramente molto più povero , sostenibile con le esigenze del Bilancio , ma con grandi possibilità di interazione con il contesto territoriale di riferimento. Questo secondo modello deve giocoforza reinventarsi con una propria identità sociale e culturale. Altrimenti vivrà come brutta copia del primo, inseguendone i vizi senza potersi permetterne le virtù.