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ELEZIONI

Chi li ha visti? I leader di partito fuggiti dai ballottaggi

Il premier Renzi si è astenuto dal fare campagna elettorale per i candidati Pd nelle varie città dove domenica si svolgeranno i ballottaggi.  Non si è speso neppure per il suo pupillo Sala e ha preferito puntare su eclatanti spot relativi alle cose fatte dal suo governo. Ma non è l’unico leader a essere scomparso dalla scena. 

Politica 17_06_2016
Giorgia Meloni e Matteo Salvini

Stasera a mezzanotte si chiuderà la campagna elettorale per i ballottaggi. Ultimi comizi, ultimi appelli, ultimi roboanti annunci prima del silenzio imposto dalla legge. Nelle più importanti città chiamate alle urne, da Milano a Torino, da Trieste a Bologna, da Roma a Napoli, c’è grande attesa per l’esito del voto, dal quale dipenderà il futuro di grandi realtà metropolitane, di milioni di cittadini, ma anche, con ogni probabilità, di Renzi e del suo governo.

Il premier, forse timoroso di una sconfitta nella capitale e nel capoluogo lombardo, dove per mesi, l’anno scorso, grazie a Expo, ha consolidato la sua immagine internazionale, ha puntato tutto sul referendum di ottobre, facendo in modo che i riflettori sulle urne di domenica prossima non fossero così accecanti per l’elettorato e non alimentassero la narrazione di un voto di valenza nazionale. Per Renzi l’importante è che arrivi il 20 giugno, affinché, archiviata la pratica delle amministrative, lui e il suo governo possano interamente dedicare le proprie energie comunicative e di propaganda all’appuntamento referendario, dal quale dipenderà la sopravvivenza dell’esecutivo, il futuro della legislatura, la permanenza dell’ex sindaco di Firenze sulla scena politica.

Ma per lui superare indenne lo scoglio di domenica prossima è importantissimo, anche in proiezione futura. Perdere Roma può essere messo in conto, vista la disastrosa esperienza di Ignazio Marino, e potrebbe rivelarsi perfino salutare per il Pd, visto il dissesto finanziario della capitale e le criticità che aspettano al varco il prossimo sindaco. Viceversa, perdere Milano e Torino potrebbe rivelarsi l’inizio della fine per un premier che in questo momento sembra arrancare, soprattutto nei rapporti con gli alleati (vedi contrasti con Alfano su Consob e Italicum) e con la minoranza del suo partito, sempre più insofferente e pronta a porre il problema del doppio incarico (premier e segretario di partito) in caso di insuccesso al secondo turno delle amministrative. E poi c’è la situazione esplosiva a Napoli, con l’esclusione della Valente dal ballottaggio e con nuove accuse di voto di scambio in ambienti dem. 

Renzi, però, se n’è guardato bene dal fare campagna elettorale per i candidati Pd nelle varie città. Non si è speso neppure per il suo pupillo Sala e ha preferito puntare su eclatanti spot relativi alle cose fatte dal suo governo (presunta riduzione delle tasse, sostegno ai disabili, lotta ai furbetti del cartellino, ecc.). Che tutto questo possa produrre effetti benefici sugli aspiranti sindaci Pd non è detto, ma fa parte di una strategia mirata a far vincere i “si” al referendum di ottobre, unico vero obiettivo del premier.

Ma il presidente del Consiglio non è l’unico leader di partito ad essere scomparso dalla scena elettorale. Neppure gli altri segretari di partito stanno brillando per attivismo. Sul versante del centrodestra, la Meloni, rimasta fuori dai ballottaggi, si è defilata, Berlusconi è fuori gioco per la delicata operazione al cuore, Salvini gira per i Comuni chiamati al voto, ma non pare guardare ai ballottaggi come alla partita della vita (tiepido il suo contributo alla campagna di Parisi, a Milano, quasi a voler smentire le parole dell’avversario Sala, che accusa il rivale di essere ostaggio di una coalizione filo-lepenista). Anche il ministro Alfano ha escluso che il voto di domenica possa avere strascichi nazionali o ricadute sul governo e quindi non si è particolarmente impegnato a sostegno dei candidati a lui graditi. Stessa cosa dicasi di Verdini e Fitto.

A questa tendenza dei big a eclissarsi non si sottrae neppure Beppe Grillo, che in altri tempi avrebbe chiuso la campagna elettorale tuonando da un palco in una delle principali piazze italiane e invece questa volta intende tacere o al massimo parlare attraverso il suo blog. La Raggi a Roma resta favoritissima e ogni eventuale dichiarazione dell’ex comico potrebbe avere effetti negativi sul suo consenso, alienandole le simpatie di parte dell’elettorato non schierato; la Appendino a Torino potrebbe farcela e sta faticosamente cercando di strappare a Fassino gli indecisi e i moderati delle liste di centrodestra non arrivate al ballottaggio, per cui ogni esternazione colorita del leader del suo movimento potrebbe rivelarsi un boomerang per lei. Tutt’altra storia rispetto al Duemila, quando l’allora presidente del Consiglio, dopo la sconfitta del suo partito (di cui peraltro non era neppure segretario) alle elezioni regionali, si dimise da Palazzo Chigi, attribuendo a quelle elezioni amministrative una valenza nazionale.

Oggi si tende a confinare all’ambito locale la portata del voto di domenica, che pure deciderà la guida delle più importanti città italiane. I leader non vogliono metterci la faccia per almeno due ragioni: il vento dell’antipolitica soffia impetuoso negli ultimi mesi e tende a delegittimare l’attuale classe dirigente, favorendo l’ascesa di figure civiche; tutti hanno paura di perdere e non vogliono trarre le conseguenze logiche e coerenti di eventuali insuccessi.