Chi è la più bella tra Beatrice e Laura?
Beatrice e Laura, le due donne che hanno segnato la vota di Dante e Petrarca. La distanza tra le due figure è abissale, ma c’è da chiedersi se non sia incolmabile piuttosto il divario tra lo sguardo di Dante che gli permette di vedere il cuore di Beatrice e quello di Petrarca tutto soffermato sull’avvenenza della sua donna.
Il sonetto XC del Canzoniere, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, è uno dei più noti e anche imitati nella storia della letteratura italiana. Petrarca si sofferma sull’aspetto di Laura, quello del momento ormai lontano nel tempo in cui l’ha incontrata, giovane e avvenente, e quello della contemporaneità, in cui la bellezza della donna sta scemando per lasciare posto ai primi segni dell’invecchiamento. Così si alternano due tempi, l’imperfetto e il presente, che demarcano la distanza tra il ricordo e l’attualità.
Leggiamo il testo per intero: «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/che ’n mille dolci nodi gli avolgea,/ e ’l vago lume oltra misura ardea/ di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;// e ’l viso di pietosi color’ farsi,/ non so se vero o falso, mi parea:/ i’ che l’esca amorosa al petto avea,/ qual meraviglia se di sùbito arsi?//Non era l’andar suo cosa mortale,/ ma d’angelica forma; e le parole/ sonavan altro che, pur voce umana;// uno spirto celeste, un vivo sole/ fu quel ch’i’ vidi: e se non fosse or tale,/ piagha per allentar d’arco non sana».
Il primo verso sottolinea i pochi tratti fisici conosciuti di Laura, in linea tra l’altro con la tradizione cortese precedente: i capelli biondi come l’oro. Se canonica è l’immagine della donna amata, non nuovo è anche il gioco letterario con cui Petrarca allude al nome dell’amata attraverso il señhal. Laura è, infatti, richiamata attraverso le espressioni «d’oro» e «a l’aura». In tutto il Canzoniere il nome Laura compare solo due volte in maniera esplicita nei componimenti. Nella maggior parte dei casi sono alcune espressioni che inducono il lettore a pensare a lei. Nuovi sono, però, la musicalità e il ritmo dei versi del poeta che Foscolo definirà ne I Sepolcri «dolce di Calliope labbro». La luce degli occhi di Laura era bellissima quando Petrarca la vide in gioventù. «Vago» è aggettivo letterario, che si presta a una moltitudine di significati: “errabondo”, “indefinito”, “bello”. Qui denota la bellezza degli occhi, ribadita poco dopo dall’aggettivo «belli». La prima quartina è chiusa da quel verbo al presente «son» e dall’aggettivo «scarsi», che sembra porsi addirittura in contrapposizione con la bellezza della donna.
Nella seconda quartina Petrarca racconta che il viso di Laura gli «parea» atteggiarsi a pietà. Qui sorprende la presenza del verbo «parea», esplicito richiamo alla tradizione stilnovista precedente e al sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare appartenente alla Vita nova. Petrarca, però, ribalta il significato del verbo. In Dante «parea» vale per «emerge in tutta la sua oggettività» e sottolinea la sorprendente epifania a cui gli spettatori possono assistere, manifestazione sacra di una donna che è tanto più bella quanto più ama e vuole il bene. La bellezza di Beatrice che traluce all’esterno è, infatti, frutto della straripante e incontenibile «bontà d’animo».
Leggiamo la descrizione più nota di Beatrice: «Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia quand’ella altrui saluta,/ ch’ogne lingua deven tremando muta,/ e li occhi no l’ardiscon di guardare./ Ella si va, sentendosi laudare,/ benignamente d’umiltà vestuta;/ e par che sia una cosa venuta/ da cielo in terra a miracol mostrare.// Mostrasi sì piacente a chi la mira,/ che dà per li occhi una dolcezza al core,/ che ‘ntender non la può chi no la prova;// e par che de la sua labbia si mova/ uno spirito soave pien d’amore,/ che va dicendo a l’anima: Sospira». Ora in Petrarca «parea» indica un’opinione, un’impressione labile e non oggettiva. Petrarca riconosce che ha incontrato Laura in un momento di particolare vulnerabilità, quando era più suscettibile ad innamorarsi. Non deve, quindi, stupire il fatto che di fronte ad una tale bellezza sia stato del tutto irretito dall’amore.
Nelle terzine immagini e linguaggio sono ancora mutuati dallo Dolce Stil Novo: l’incedere, l’aspetto e la voce angelici, tutto in quella donna sembrava richiamare un essere proveniente dal Cielo. L’affermazione del Petrarca è, però, del tutto formale, scevra di quella intima convinzione che caratterizzava le parole di Dante: ovvero con il repertorio di immagini angelicate Petrarca vuole sottolineare la straordinarietà della bellezza di Laura, non certo descrivere le sue qualità spirituali. Allora scopriamo proprio alla fine del sonetto che, anche se la bellezza di Laura è un po’ sfiorita, la passione per lei non è scemata. Per dirla col Petrarca un cuore ferito dalla freccia di Cupido non si risana perché la corda dell’arco si è allentata.
Beatrice, morta neanche venticinquenne nel 1290, non ebbe tempo di invecchiare, a differenza di Laura, morta durante la peste del 1348, quando i segni del tempo avevano ormai lasciato segni inconfondibili sul suo volto. Ma proprio nel sonetto che descrive le prove del passaggio del tempo sul volto dell’amata Laura Petrarca celebra la bellezza tutta esteriore della donna, nulla concedendo all’interiorità e all’animo di lei. Una volta ancora la distanza tra la figura di Beatrice e quella di Laura è abissale, ma c’è da chiedersi, a ragione, se non sia incolmabile piuttosto il divario tra lo sguardo di Dante che gli permette di vedere il cuore di Beatrice e quello di Petrarca tutto soffermato sulla propria sofferenza e sull’avvenenza esteriore della donna incontrata.