Che tempo! Il conto di madre terra e il richiamo di Dio
Un po’ di acqua in più e l’Italia ci frana sotto i piedi, i fiumi non stanno più al loro posto; nella vicinissima Albania, la terra trema e provoca disastri, mentre noi ancora stiamo cercando di sanare le ferite dei recenti terremoti di casa nostra. Che fine ha fatto “Madre Terra”? Cos’è che è andato storto? Alla dea non sono piaciuti i nostri omaggi o forse si attende da noi dei sacrifici più lauti? La questione è estremamente seria. Il Signore ci sta richiamando, proprio permettendo queste calamità, perché non abbiamo a perdere eternamente l’anima.
Un po’ di acqua in più e l’Italia ci frana sotto i piedi, i fiumi non stanno più al loro posto; nella vicinissima Albania, la terra trema e provoca disastri, mentre noi ancora stiamo cercando di sanare le ferite dei recenti terremoti di casa nostra.
Che fine ha fatto “Madre Terra”? Cos’è che è andato storto? Alla dea non sono piaciuti i nostri omaggi o forse si attende da noi dei sacrifici più lauti? Oppure, come diceva Elia di Baal, “Madre Terra” è sovrappensiero, o indaffarata, o magari si è addormentata (cf. 1Re 18, 20-40)? O forse si è offesa per il tuffo nel Tevere delle sue effigie?
Lasciamo che sia ancora il Profeta d’Israele a scuoterci: «Fino a quando zoppicherete con i due piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (1Re 18, 21). È ora di scegliere, concretamente. Di fronte allo svelarsi di una Terra che è matrigna, che ogni giorno rivela la maledizione che è stata scagliata sul suolo, dopo il peccato dei Progenitori, e che mostra all’uomo il prezzo della ribellione a Dio, a chi vogliamo rivolgerci? Di fronte all’evidente limite della natura e all’altrettanto evidente limite dell’uomo cosa vogliamo fare? Certo, la Terra è anche “madre”, in quanto Dio stesso l’ha creata perché sostenesse l’uomo nella sua vita terrena e lo elevasse a contemplare il Creatore; ma è pur sempre creatura, impotente, sorda ai nostri lamenti e per giunta ferita dal nostro peccato. Allora, chi vogliamo seguire? Chi vogliamo supplicare?
Non è una novità che gli uomini, presi dall’illusione della propria grandezza, recalcitrino dal cadere in ginocchio davanti al vero Dio. Essi vogliono divinità a propria immagine, idoli che siano loro utili, che servano alla propria mania di grandezza, in cambio del culto loro dato. È la logica di Satana: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt. 4, 9): un “equo” scambio, che sia utile ad entrambi. Salvo poi arrivare alla fine della cena ed accorgersi del conto salatissimo.
Dunque, non è una novità che gli uomini si costruiscano idoli e non è una novità che si fabbrichino anche dei nemici; chiunque, pur di non accusare se stesso, pur di non ammettere di aver procurato egli stesso la “morte di Dio”, di aver cacciato Dio dalla propria vita, vera causa di tutte le calamità che ci colpiscono, chiunque, di fronte alle calamità, inizia a dare la caccia al colpevole, purché questo colpevole sia sempre un altro. Ed oggi la caccia al colpevole si ammanta delle vesti di una pseudo-scienza, veicolata come pensiero unico dai mass-media, che cerca subito di eliminare dai nostri cuori i più piccoli germogli di pentimento, di ritorno umile a Dio, sotterrandoli sotto le chiacchiere del riscaldamento globale e delle emissioni di CO2. Il desiderio di pentimento, di una vera ascesi viene subito fatto deragliare nella nuova ascesi ecologista: niente plastica, chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti, sentirsi in colpa se si ha ancora un’auto diesel.
Oggi, però, una novità c’è, amara come il fiele, ma che dobbiamo guardare in faccia: siamo noi, quelli che il Signore ha strappato dalle tenebre del peccato e della morte eterna, noi che siamo stati rigenerati dall’acqua e dal Sangue sgorgati dal costato di Cristo, noi che abbiamo ricevuto l’annuncio del Regno, noi che siamo divenuti figlioli di Dio; siamo noi ad essere privi di intelligenza, portando un idolo da noi scolpito e rivolgendoci ad un idolo che non può salvare (cf. Is. 45, 20). Siamo proprio noi ad aver volto le spalle al vero Dio, a pensare che, in questa fase adulta dell’umanità, sarebbe superstizione e fede infantile tornare a Dio e supplicarlo con umiltà e fiducia di donarci il bel tempo, di tenere lontano da noi il terremoto, di proteggerci dalla guerra. Noi siamo troppo progrediti per tornare a pregare le Rogazioni, per recuperare le Quattro Tempora, per utilizzare quelle collette predisposte nel Messale, in pagine che non sono mai state aperte. In compenso abbiamo vissuto un Sinodo che si è gloriato di aver usato carta riciclata, borracce al posto delle bottiglie di plastica, e di aver finanziato progetti di rimboschimento per controbilanciare le emissioni di gas causate dai viaggi dei padri sinodali. E, come se non bastasse, ha mostrato come normale l’adorazione di false divinità, come buona cosa omaggiare della nostra venerazione gli alberelli e come gesto di rispetto lo zelante recupero delle Pachamama.
La questione è estremamente seria. Il Signore ci sta richiamando, proprio permettendo queste calamità, perché non abbiamo a perdere eternamente l’anima. «Io taccio e il terremoto emette una voce più chiara di una tromba e dice: “Sono venuto non per seppellirvi ma per fortificarvi”»: così predicava san Giovanni Crisostomo, in occasione di una scossa di terremoto che colpì la città di Antiochia; «questo dice il terremoto e fa uscire una simile voce: “Vi ho spaventato non per rattristarvi ma per rendervi più attenti”».
Stiamo dunque allerta, vigiliamo: ogni calamità naturale, ogni disordine sociale, ogni epidemia e carestia sono l’esito del nostro allontanamento da Dio e sono il grido di Dio che vuole richiamarci a Sé; e la soluzione, l’unica vera soluzione, è proprio tornare a Lui.
Qualche anno fa, i monaci eremiti di Minucciano (LC) hanno dato alle stampe un bellissimo libro che narra l’incredibile storia del monaco russo Padre Arsenio Streltzov (1894-1975), esiliato più volte dal regime sovietico e vissuto dal 1942 al 1958 in un campo “a regime speciale”, con quaranta gradi sotto zero d’inverno. I detenuti rientravano di sera dentro le baracche, che maleodoravano di umidità, sudore, escrementi, ma che erano anche l’unico rifugio caldo. E qui, la serata passava tra risse, bestemmie e qualche volta anche discussioni. Padre Arsenio, un angelo in questo inferno, cercava sempre di aiutare tutti, ma se ne guardava bene di farsi coinvolgere in queste dispute; rimaneva nel suo cantuccio e pregava incessantemente la preghiera di Gesù. Una sera però fu costretto dagli altri internati a prendere posizione di fronte al regime ateo sovietico. Ci si aspettava da lui l’ovvia condanna dei comunisti, ma Padre Arsenio guardò la questione più a fondo: «Di chi è la colpa? – disse il monaco –: Noi siamo tutti colpevoli, perché raccogliamo quello che abbiamo seminato [...] I figli dei sacerdoti diventavano dei rivoluzionari, degli atei virulenti, perché nelle loro famiglie erano testimoni di un’assenza totale di fede, di menzogne, di inganni. Molto prima della rivoluzione, il clero aveva perduto il diritto di essere la guida e la coscienza del popolo. [...] L’ateismo, la mancanza di fede, il vizio del bere, la dissolutezza erano divenuti abituali nel clero. Tra i numerosissimi monasteri del nostro paese, solo cinque o sei erano ancora delle fiaccole del cristianesimo, della sua coscienza, del suo spirito e della perfezione della fede [...] Ricordatevi di tutto questo, e capirete perché il popolo ha dimenticato così rapidamente i suoi pastori e la sua fede, perché ha partecipato alla distruzione delle chiese. In questo senso, io non posso condannare del tutto il nostro potere, perché i germi dell’ateismo sono caduti su di un terreno preparato da noi stessi. Il campo [di concentramento, n.d.a.], le nostre miserie, le nostre sofferenze e tante vittime innocenti, tutto proviene di là» (Nessuno ha un amore più grande di questo. Padre Arsenio, Testimone della fede, Consolatore delle anime, pp. 46-47).
L’atmosfera in cui viviamo, e che noi stessi abbiamo contribuito a creare, è più che mai propizia per far crescere la semente atea che si è seminata. Ce n’è abbastanza per riflettere. E per decidersi a cambiare rotta.