Charlotte, la rivolta contro i razzisti immaginari
Un agente afro-americano spara a un uomo afro-americano in circostanze ancora non del tutto chiare. E' razzismo? Sicuramente no. Ma è proprio questa la causa della rivolta razziale scoppiata a Charlotte e ora dilagante in molte altre città degli Usa.
Charlotte, North Carolina, è al suo secondo giorno di coprifuoco. La misura straordinaria è stata adottata dal sindaco dopo che le proteste scoppiate mercoledì hanno causato la morte di un manifestante, ucciso non dalla polizia ma da altri violenti, secondo il rapporto di polizia. Le proteste, scoppiate mercoledì, hanno subito preso una brutta piega con scontri fra facinorosi e agenti di polizia, saccheggi e distruzioni di proprietà. I feriti sono almeno venti, molti dei quali sono uomini delle forze dell’ordine, uno travolto da un’auto e l’altro colpito con una pietra. La causa della protesta, come viene riferito da tutti i servizi giornalistici è l’uccisione di un afroamericano da parte della polizia. Ennesimo caso di razzismo, dunque. Ma ci sono molti dettagli che vengono relegati a due righe di cronaca, ma sono invece fondamentali per rivelare tutt’altra dinamica degli eventi.
Un afroamericano è stato ucciso da un poliziotto, martedì scorso. Questo è un fatto assodato. L’afroamericano in questione si chiamava Keith Lamont Scott, ferito mortalmente e deceduto poco dopo in ospedale. Della sua uccisione abbiamo il video amatoriale girato dalla moglie, che aveva provato a mediare durante il fermo. Non si vede il momento dell’uccisione. Si sente e basta. Si sente la moglie, prima del colpo fatale, che continua a gridare ai poliziotti “non sparategli, non sparategli, non fa del male a nessuno, ha riportato un trauma”. Intanto un poliziotto sta gridando al marito “Getta la pistola! Getta la pistola!” Poi gli spari. La moglie si avvicina. Per la prima volta vediamo inquadrato Keith, steso a terra, esanime. La moglie, con voce ferma, non ha ancora realizzato che suo marito è stato mortalmente ferito, ripete a se stessa e agli altri “E’ meglio che non sia morto”. Keith morirà poco dopo, appunto. Seguono i video, altrettanto strazianti, della sorella che grida per la morte del fratello. Queste sono le immagini che, diventando virali, hanno scatenato la mobilitazione immediata del movimento antirazzista Black Lives Matter. Nelle interviste ai familiari di Keith Lamont Scott, apprendiamo che la vittima della polizia fosse un bravo padre di famiglia, 43 anni, 7 figli. A causa di un grave incidente di moto, aveva riportato un grave trauma, a volte perdeva la memoria e incespicava nel parlare. Quando è stato avvicinato dagli agenti stava aspettando il figlio alla fermata dello scuolabus, leggendo un libro. Amava leggere il Corano. Stando a questa ricostruzione, la polizia di Charlotte ha ammazzato un innocente. Un atto di razzismo e probabilmente anche di islamofobia, se il libro che la vittima stava leggendo era il Corano.
Ma la polizia ha sparato a un innocente disarmato? Secondo la versione degli agenti di Charlotte, Keith Lamont Scott non era affatto disarmato, portava una pistola e l’avrebbe puntata contro gli agenti. E’ certo che non fosse lui il ricercato: gli ispettori erano sulle tracce di un altro uomo, quando si sono imbattuti nel signor Scott. Ma avrebbero agito per auto-difesa dopo esser stati minacciati. La famiglia ha negato che la vittima fosse armata. Però, in un servizio di una Tv locale, a fianco del corpo ferito a morte di Scott, si vede una pistola. Escludendo che l’arma fosse già lì, o fosse abbandonata da un poliziotto, potrebbe essere quella la pistola con cui gli agenti sono stati minacciati. La famiglia di Scott lo esclude, perché il defunto non avrebbe potuto legalmente possedere un’arma. Se l’avesse avuto, sarebbe già quello un reato. Perché non avrebbe potuto possedere una pistola? Perché era un pluri-pregiudicato, con otto anni di carcere alle spalle per “aggressione con armi letali”. Solo nel 2011 sarebbe tornato in libertà. Nella sua fedina penale, secondo la stampa locale, ci sarebbero anche aggressioni ai danni di un bambino di 12 anni e di una donna. Quindi, l’immagine del pacifico buon padre di famiglia inizia a non reggere. E si incomincia a pensare che, un uomo con precedenti così gravi, potesse anche essere armato e potesse anche aver reagito in modo inconsulto alle domande della polizia.
Piuttosto, quel che si dice poco, in tutte le cronache sul caso, è l’identità dell’agente che ha sparato, attualmente sospeso dal servizio in attesa della conclusione dell’indagine aperta sul suo conto. Si tratta di Brentley Vinson, da due anni in servizio. Laureato a pieni voti in giurisprudenza (giustizia criminale, la sua specializzazione) è stato membro della squadra della sua università, la Liberty University. I suoi ex compagni di squadra e il suo ex allenatore lo definiscono un leader nato e un uomo di fede. Guidava il gruppo di preghiera della sua squadra. Figlio di un agente di polizia, voleva seguire, sin da subito, le orme del padre. Chi lo conosce, esclude che possa aver deliberatamente sparato a un innocente. Piccolo particolare in cronaca: Brentley Vinson è un afro-americano. Un nero, esattamente come l’uomo che ha ucciso.
Razzismo? Un agente afro-americano che spara a un uomo afro-americano non è un caso di razzismo. E i motivi per cui ha sparato non sono ancora chiari. I giornalisti lo dicono, ma in piccole note in calce, piccole frasi buttate lì in mezzo a servizi interi sul nuovo scontro razziale in corso, dettagli che nessuno sente. I media paiono aver già concluso le indagini. I titoli sono univoci e inequivocabili: polizia spara ad afro-americano. Ed è subito razzismo. Quanta responsabilità hanno nell'aver fomentato l'ultima rivolta? Di sicuro, in una società ancora televisiva, hanno gettato benzina sul fuoco.