Chalabi, l'uomo che provò a liberare l'Iraq e lo distrusse
E' morto Ahmad Chalabi, il personaggio che più di ogni altro ha determinato il destino dell'Iraq contemporaneo. Fu determinante nella decisione dell'intervento americano contro Saddam Hussein nel 2003. Pur non essendo mai arrivato al potere, è prevalsa la sua visione di democrazia sciita. Che è alla base dell'attuale disintegrazione dell'Iraq.
Ahmed Chalabi è un nome che pochi riconoscono. Alla sua morte, avvenuta in solitudine, il 3 novembre scorso, in casa sua a Baghdad, anche la stampa conservatrice statunitense lo ha pressoché ignorato, dopo averlo portato sugli scudi come eroe della resistenza a Saddam Hussein. Eppure, la sua vita segna un pezzo di storia contemporanea, nostra e del Medio Oriente. Se non si ripercorre la sua vicenda, non si può comprendere perché l’Iraq di oggi è finito a pezzi, con un terzo del territorio occupato dal Califfato. Nessuno più di lui è stato determinante per decidere l’invasione dell’Iraq nel 2003. Il suo rapporto di amore e odio con gli Usa è un vero caso-scuola per comprendere il modo in cui l’Occidente si infatua di un leader politico arabo, ma al tempo stesso ne dubita, per poi scaricarlo, rendendosi conto solo allora di aver fallito. E’ lo stesso copione che si ripete dai tempi della Prima Guerra Mondiale (quando gli inglesi si affidarono alla dinastia araba Hashemita) e che è alla base degli interventi più recenti, dopo le Primavere Arabe.
Ahmad Chalabi era l’anti-Saddam per eccellenza. Si iniziò a conoscere il suo nome dopo la Guerra del Golfo del 1991 e soprattutto dopo la rivolta degli sciiti che ne seguì, brutalmente repressa da quel che restava dell’esercito iracheno. Chalabi, proveniente da una delle più influenti famiglie sciite del paese, divenne il simbolo della resistenza all’estero. Era vissuto in esilio per quasi tutta la vita, fra Gran Bretagna e Stati Uniti. La sua esperienza in Iraq si limitava al periodo della monarchia, prima del golpe del Baath (1963), ma proprio per questo non era compromesso in alcun modo con il regime di Saddam Hussein. Era sciita, ma laico e democratico, senza alcun legame con il regime iraniano. Dunque era perfetto per rappresentare, ad appena 2 anni dalla fine del comunismo, una sorta di nuovo “Lech Walesa musulmano”, una figura di riferimento per un Iraq senza Saddam. A partire dal 1992, il suo Iraqi National Congress (Inc) ricevette decine di milioni di dollari di finanziamenti dall’amministrazione Clinton, anche per coordinare attività di resistenza contro la dittatura di Baghdad. La Cia si appoggiò a lui e ai suoi uomini in Iraq per compiere l’unico serio tentativo di golpe contro il dittatore, nel 1996. Il colpo di mano fallì e la Cia addossò la colpa all’Iraqi National Congress, giungendo alla conclusione che non avesse alcun seguito popolare in Iraq. Chalabi si difese affermando di aver avvertito in tempo la Cia sulle contromosse di Saddam, ma di essere stato ignorato. Da quell’anno in poi, la Cia non si fidò più e fece tutto il possibile per metterlo in cattiva luce agli occhi dell’amministrazione. Non che non ci fossero elementi per dubitare del personaggio: nel 1992 era stato condannato in Giordania per bancarotta fraudolenta della Petra Bank. Chalabi, anche in quel caso, si difese affermando di essere stato vittima di un’operazione politica giordana.
Affidabile o meno, Ahmad Chalabi conquistò il favore dell’amministrazione Bush, subito dopo l’11 settembre. Non tutta l’amministrazione, però. Venne preso seriamente in considerazione dal vicepresidente Dick Cheney, dal Pentagono e dall’ambiente dei neoconservatori interno al Partito Repubblicano. Il Dipartimento di Stato e la Cia, al contrario, continuarono a non fidarsi di lui. Si dice ancora oggi che fu Chalabi a proporre a Bush il dossier sulle armi di distruzione di massa, quelle che non vennero mai trovate, ma determinarono la decisione di invadere l’Iraq nel 2003. Una commissione del Congresso, tuttavia, assolse Chalabi da questa colpa: non fu l’Inc a fornire la “pistola fumante”, ma altre fonti irachene rivelatesi inaffidabili. La “responsabilità” del leader sciita in esilio, semmai, fu di natura politica. Diede infatti l’impressione di poter formare un governo stabile, a guida sciita, subito dopo la caduta del dittatore. Mantenne pubblicamente questa sua convinzione anche dopo l’invasione del marzo-aprile 2003 e l’inizio del caos nell’immediato dopoguerra. “Lasciateci governare!” era la sua richiesta al governo statunitense, dopo che un americano, Paul Bremer, alla guida del governo provvisorio iracheno. Facendo parte del nuovo esecutivo, fece pressioni per epurare esercito, polizia e istituzioni dagli elementi più compromessi del vecchio regime: altra decisione che tuttora viene considerata come una “causa prima” della disintegrazione dell’Iraq.
Contrariamente alle aspettative di molti, Chalabi non divenne il successore di Saddam Hussein. L’amministrazione americana aveva già iniziato a cambiare idea sul suo conto. Il mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa, nel 2004 portò a una vera e propria persecuzione nei suoi confronti da parte di Cia e Fbi, che lo accusarono di frode e spionaggio a favore dell’Iran. Il punto di vista della Cia e del Dipartimento di Stato aveva prevalso rispetto a quello del Pentagono. Tuttavia, nel 2004 scoppiò la rivolta sciita, guidata dall’estremista filo-iraniano Moqtada al Sadr. E nel corso della dura lotta, Chalabi tornò utile in veste di mediatore, fra le autorità dell’ayatollah sciita Sistani e le milizie ribelli. In questo modo conquistò anche un discreto seguito nell’opinione pubblica sciita, venne eletto nelle prime elezioni libere del 2005 e divenne vicepremier. Paradossalmente, l’uomo che era visto come cavallo di razza dagli Usa, ascese alla guida del paese quando era stato scaricato da Washington. Rimase al governo meno di un anno, dall’aprile del 2005 al gennaio 2006, ma fu proprio il periodo del primo governo a maggioranza sciita che gettò le basi per la successiva insurrezione sunnita, la minoranza del Paese che, sotto Saddam, aveva il controllo assoluto. L’epurazione degli elementi baathisti, la redistribuzione della proprietà sulle risorse petrolifere (Chalabi volle redistribuirla ai singoli cittadini: la maggioranza è sciita) non fecero che inasprire lo scontro settario, che divenne pressoché incontrollabile nel 2006. Quando gli Usa dovettero mandare rinforzi e affidare la guerra di contro-insurrezione al generale David Petraeus, Chalabi era ormai una figura di secondo piano. Petraeus, per sconfiggere Al Qaeda, dovette fare affidamento ai sunniti, inclusi elementi dell’ex Baath.
Da allora ad oggi, di Chalabi non si è praticamente più sentito parlare. Del governo sciita di Al Maliki, che lo ha sempre tenuto in buona considerazione, non è rimasto un buon ricordo: la sua politica ha alienato completamente il favore dei sunniti, spingendoli in massa nelle braccia dell’Isis, quando questo si è palesato all’orizzonte nel 2014. Come tutte le storie mediorientali, è difficile se non impossibile esprimere un giudizio netto. Chalabi fu un eroe o un truffatore? Fu un’occasione persa per la democrazia irachena, o l’artefice della sua disintegrazione? Oggettivamente parlando, l’unica cosa che si può affermare con certezza è che fallì nella sua impresa. L’Iraq disintegrato è lì a dimostrarlo. Ma ancor di più fallì l’amministrazione statunitense, nella gestione stessa del rapporto con il suo gruppo. L’amministrazione Bush se ne innamorò con troppa fretta di giudizio. La Cia, dal ’96 in poi, non fece altro che mettere i bastoni fra le ruote. L’indecisione se dar retta all’una o all’altra campana fu il presupposto del fallimento. Ma la difficoltà nel costruire un Iraq democratico era già scritta nel suo Dna, nei suoi confini. Anche se avesse ricevuto piena e incondizionata fiducia dagli Stati Uniti, Chalabi non avrebbe comunque tenuto assieme una nazione formata da tre popoli (arabo sunnita, arabo sciita e curdo) fra loro inconciliabili e resi ancor più feroci da decenni di dittatura brutale del Baath. Oggi questa realtà è venuta definitivamente a galla. L’Iraq sciita è dominato da milizie iraniane. Quello sunnita è nelle mani dell’Isis. E l’unica zona franca è un Kurditan ormai di fatto indipendente, l’unico luogo in cui i pochi cristiani rimasti trovano rifugio.