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FOCUS

Centrafrica, l'ultima emergenza

Il 2012 si chiude con molte crisi africane aperte e insanabili, e per il 2013 già si prevedono tempi difficili per Kenya e Zimbabwe. Ma nelle ultime settimane la situazione più drammatica si registra nella Repubblica Centrafricana dove milizie ribelli stanno marciando sulla capitale. Crisi umanitaria, l'allarme dell'arcivescovo.

Esteri 31_12_2012
Repubblica Centrafricana

Il 2012 finisce lasciando in Africa una dolorosa eredità di crisi aperte, insanabili: tra i tanti stati dal futuro difficile, la Nigeria, minacciata dall’integralismo islamico di Boko Haram, il movimento che continua a mettere a segno attentati mortali prendendo sempre più spesso di mira le comunità cristiane; il Mali, destabilizzato da ben due colpi di stato in meno di un anno e diviso in due, con il nord in mano ai terroristi islamici e mezzo milione tra sfollati e profughi da salvare; il Sudan e il Sud Sudan, ostili uno all’altro, entrambi alla bancarotta e mal governati; la Guinea Bissau, anch’essa teatro di un colpo di stato lo scorso aprile e intenta a una transizione problematica; il Sud Africa, in netta recessione economica e scosso dalla strage di minatori compiuta ad agosto dalle forze dell’ordine durante gli scioperi a cui hanno aderito decine di migliaia di operai e braccianti.

Nel 2013, poi, andranno alle urne Kenya e Zimbabwe e si temono, anzi si prevedono, nuove, cruente crisi post-elettorali: già in Kenya la conflittualità tribale si è inasprita negli ultimi mesi, le vittime degli scontri tra comunità di diversa etnia si contano ormai a centinaia e a ciò si aggiunge l’incubo del terrorismo islamico che durante l’anno ha messo a segno attentati su tutto il territorio nazionale, dall’estremo nord, al confine con la Somalia, alla capitale Nairobi, a Mombasa, il principale porto della regione. 

Ma in queste ultime ore del 2012 è soprattutto la Repubblica Centrafricana a catalizzare l’attenzione mentre, chilometro dopo chilometro, l’alleanza antigovernativa Seleka avanza dal nord est verso la capitale Bangui con l’intenzione di far cadere il presidente François Bozize, accusato di non aver rispettato gli accordi di pace firmati nel 2007 e le condizioni del successivo dialogo inclusivo del 2008.

Dal 10 dicembre, data di inizio dell’offensiva, i tre movimenti armati che compongono l’alleanza, nata ad agosto, hanno travolto le truppe governative conquistando rapidamente le principali città del nord e del centro del paese. A quanto pare i suoi miliziani sono bene armati  e organizzati: sembra avverarsi la previsione che l’arsenale libico e i mercenari del colonnello Gheddafi avrebbero rafforzato i gruppi antigovernativi e le bande di criminali di tutto il continente. D’altra parte il governo del Centrafrica, come altri governi africani, ad esempio quelli del Mali e della Somalia, non è mai riuscito a controllare tutto il territorio nazionale tanto che, alla galassia di gruppi armati autoctoni, si aggiungono quelli dei paesi vicini – del Chad, soprattutto, e della Repubblica Democratica del Congo – che da anni invadono le regioni di confine seminando morte e miseria. Uno di questi, il più noto per l’efferatezza dei suoi crimini contro le popolazioni inermi, è il Lord Resistance Army, originario dell’Uganda e trasferitosi in Congo nel 2006, che nel 2012 ha compiuto almeno 138 incursioni in territorio centrafricano uccidendo 20 civili e costringendo oltre 440.000 persone alla fuga.

Da quando è iniziata l’offensiva di Seleka è proprio la sorte della popolazione a destare estrema preoccupazione. In suo nome, chiedendo l’avvio di un dialogo che sospenda l’offensiva, ha parlato per primo il 20 dicembre l’arcivescovo della capitale, monsignor Dieudonné Nzapalainga, seguito nei giorni successivi dalla Comunità economica dei paesi dell’Africa centrale e poi dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Benché ancora non ci sia notizia di stragi di civili, si temono infatti gli effetti di una crisi prolungata su una popolazione già estenuata, tra le più povere del pianeta, vittima da oltre mezzo secolo di governi tra i più irresponsabili del continente, avvicendatisi a partire dal 1960, anno dell’indipendenza, e affermatisi tutti tramite colpi di stato e feroci lotte per il potere. Lo stesso Bozize governa dal 2003 grazie a un golpe e nulla ha fatto per il bene del suo paese che nell’Indice dello sviluppo umano 2012 si colloca in 179esima posizione (su 187 stati classificati), con una speranza di vita alla nascita di 48 anni, un tasso di mortalità infantile del 171 per mille, quasi metà della popolazione analfabeta e al 63 per cento sotto la soglia della povertà.

Partita male, con la dittatura di David Dacko che impose un regime monopartitico e provocò un disastro economico, la sorte della Repubblica Centrafricana e dei suoi abitanti è precipitata nel 1965 con il golpe del colonnello Jean-Bédel Bokassa, il cui delirio di onnipotenza non ha conosciuto limiti e di cui si dice fosse persino dedito a pratiche di cannibalismo. Qualcuno ricorderà la grottesca, fastosa cerimonia costata 20 milioni di dollari con cui nel 1977 si autoincoronò imperatore prosciugando le casse statali, peraltro sempre rifornite grazie alle cospicue ricchezze del sottosuolo centrafricano: prima di tutto i diamanti di cui il paese è tra i maggiori produttori mondiali e che l’imperatore Bokassa I si dice donasse addirittura a sacchetti ad amici e sostenitori, tra i quali si annoverava l’allora presidente francese Valéry Giscard d’Estaing.

Le milizie di Seleka si trovano adesso a poco più di cento chilometri dalla capitale. Il presidente Bozize ha chiesto aiuto alla Francia che ha alcune centinaia di militari nel paese, ma il presidente Hollande ha fatto sapere che il contingente interverrà soltanto per proteggere i cittadini e gli interessi francesi. Anche gli Stati Uniti hanno ordinato l’evacuazione dei dipendenti dell’ambasciata americana a Bangui senza rispondere all’appello del presidente che quindi al momento può contare soltanto sulle truppe inviate nei giorni scorsi dal Chad a sostegno dell’esercito, ma per ora rivelatesi inutili ai fini di fermare l’offensiva.

Nell’interesse della popolazione si può solo sperare in una rapida soluzione perché la prospettiva di una lunga crisi è insostenibile: la divisione del paese, in parte occupato da forze antigovernative, degli interminabili negoziati, un eventuale intervento armato esterno avrebbero conseguenze disastrose che la solidarietà internazionale faticherebbe a contenere.