Centrafrica, la finta pace della Sant'Egidio
L'accordo firmato il 19 giugno scorso a Roma e salutato come un grande successo in realtà è stato da subito carta straccia. Combattimenti, violenze e massacri sono all'ordine del giorno, come quello accaduto nelle scorse settimane nella cittadina di Gambo, perpetrato dalle milizie islamiste con la complicità della missione Onu.
Disinteresse per le guerre africane: è una delle accuse spesso rivolte all’Italia, all’Europa, all’Occidente. L’accusa è palesemente ingiusta perché dappertutto dove si combatte ci sono missioni militari di pace e interventi umanitari finanziati in gran parte o del tutto dall’Occidente. Neanche il silenzio che si rimprovera ai mass media è vero. Magari frammentarie e non di rado imprecise, ma in Italia si pubblicano notizie sull’Africa e sulle sue crisi più che su altri continenti.
Di una crisi in effetti, quella della RCA, Repubblica Centrafricana, si parla poco, ma perché molti credono che ormai sia stata risolta. In questo piccolo paese ricco di diamanti è scoppiata una guerra nel 2012 quando la minoranza islamica (15% della popolazione) si è armata creando una milizia chiamata Seleka, rafforzata da migliaia di combattenti stranieri. Nel 2013 Seleka ha preso il potere con un colpo di stato ed è iniziata la persecuzione dei cristiani, con chiese profanate, saccheggi e distruzione di edifici religiosi, massacri, stupri, torture.
Per difendersi i cristiani allora si sono organizzati in gruppi armati anti-Balaka (anti-machete), che però ben presto, oltre a proteggere le comunità cristiane minacciate, hanno iniziato una caccia ai musulmani. Alla fine del 2013 il paese era in una situazione definita dall’Onu di “pre-genocidio”, i cristiani in fuga dai territori in mano ai ribelli, i musulmani da quelli a maggioranza cristiana. I combattenti non hanno deposto le armi nemmeno quando nel 2014, su pressione internazionale, il leader Seleka Michel Djotodia ha lasciato la carica conquistata con la forza. Gli scontri sono continuati con conseguenze drammatiche mentre Seleka e anti-Balaka si frantumavano in decine di gruppi: oltre alle numerose vittime, oggi si contano più di un milione tra sfollati e rifugiati, su 4,5 milioni di abitanti.
Il 19 giugno scorso il governo centrafricano e 13 gruppi armati hanno firmato un cessate il fuoco con effetto immediato e un’intesa su varie questioni di carattere economico, politico, umanitario e sociale. L’annuncio è stato dato dalla Comunità di Sant’Egidio nella cui sede romana si sono svolti i colloqui e alla quale va il merito dell’accordo raggiunto, che il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha definito “un importante passo avanti per la pace e la stabilità del paese”.
Ma in realtà il cessate il fuoco non è mai entrato in vigore. Nei due giorni successivi alla firma scontri violentissimi hanno fatto 100 morti. Da allora ogni giorno ci sono stati combattimenti, razzie, violenze. Come in passato, le milizie islamiche antigovernative, che ormai controllano più del 70% del paese, non risparmiano nessuno e gli anti-Balaka non sono da meno.
Uno degli episodi più cruenti, con decine di morti, si è verificato ad agosto. Tra il 3 e il 4 agosto gli anti-Balaka hanno liberato Gambo, una cittadina del sud est, dai Seleka che la occupavano da quattro anni. Qualche giorno dopo però un anti-Balaka per qualche motivo ha sparato a dei caschi blu della Minusca, la missione Onu di peacekeeping. La reazione dei militari Onu, racconta monsignor Juan Jose Aguirre Munoz, vescovo della diocesi di Bangassou, “è stata fortissima, micidiale: hanno sparato contro tutto quello che si muoveva”, inclusi i civili. Informati che i caschi blu avevano messo in fuga gli anti-Balaka – prosegue il racconto monsignor Munoz in una intervista rilasciata a Radio Vaticana – i Seleka sono tornati a Gambo ed è stato un altro massacro. I miliziani sono entrati anche nell’ospedale dove hanno ucciso sei dipendenti della Croce Rossa e molti pazienti: “hanno preso queste persone, le hanno sgozzate. Anche i bambini malati hanno subito la stessa sorte. È stato un disastro”.
Il motivo per cui l’accordo è sostanzialmente fallito è che i gruppi armati sono decine, quelli convenuti a Roma rappresentano se stessi e non sono neanche tutti centrafricani, il governo conta poco. “Per discutere – sostiene padre Aurelio Gazzera da decenni missionario a Bozoum, 400 chilometri a nord ovest della capitale Bangui – le parti devono essere a un livello di forza simile. Qui abbiamo i potenti, che sono i gruppi armati, e dall’altra parte delle nullità come il governo e l’Onu. Per questo la grande soddisfazione espressa dal Consiglio di sicurezza per l’accordo di Roma è fuori luogo”.
I vescovi centrafricani hanno criticato sia la scelta degli interlocutori che l’atteggiamento dei mediatori, “troppo remissivo nei confronti dei gruppi ribelli che si sono macchiati di crimini indicibili”. “Lo stato ha cessato di esistere – spiega il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo della capitale – i signori della guerra regnano con il terrore, hanno diritto di vita e di morte sulle persone” e poiché detengono il controllo di gran parte del territorio nazionale, prosperano sul commercio di armi, diamanti, legno, oro e altre risorse minerarie.
Il cardinale Nzapalainga ha più di un motivo di criticare l’accordo. A sua insaputa, un esponente politico centrafricano lo ha firmato a suo nome. Venutone a conoscenza, monsignor Nzapalainga ha ufficialmente smentito di ave mandato qualcuno a Roma né per proprio conto né per conto della Conferenza episcopale.
In RCA nessuno si era illuso che l’accordo servisse a qualcosa. “Se esistesse un premio mondiale degli accordi senza futuro – commentava RCAnews all’indomani della firma – il Centrafrica lo avrebbe già vinto più volte. L’ultimo (quello di Sant’Egidio) consacra il primato dell’impunità sulla giustizia dal momento che in base all’accordo “il governo si impegna a garantire che i gruppi militari siano rappresentati a tutti i livelli e partecipino alla ricostruzione”.