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CRISI DI FEDE

Celibato e continenza, perché temerne la caduta

Il paragrafo 111 del documento finale del Sinodo sull’Amazzonia prevede la possibilità di ordinare sacerdoti i diaconi permanenti. Se il papa accoglierà la proposta, si concretizzerà una violazione della legge della continenza, che è legata ai doveri del ministero. Infatti, la presenza del sacerdote celibe o almeno continente non è solo un richiamo morale alla virtù della castità, ma è il segno del rapporto sponsale di Cristo Sacerdote con la sua Chiesa. Cosa che oggi si dimentica.

Ecclesia 05_11_2019

Nemmeno il tempo di rimettere sull’aereo i padri sinodali, e monsignor Vincenzo Paglia già prende il largo. In un’intervista a Il Giornale, il Gran Cancelliere del moribondo Istituto Giovanni Paolo II esterna il suo pensiero sul contenuto del paragrafo 111 del documento finale, che prevede la possibilità di ordinare sacerdoti i diaconi permanenti. Paglia ha infatti già messo le mani avanti, dichiarando che non si tratta di una possibilità che riguarda solo l’Amazzonia: «Nel paragrafo si scrive che questa prospettiva richiede un approccio universale, cioè si offre un’apertura che la Chiesa universale deve individuare se ci sono altre aree analoghe. Papa Francesco più volte ha ripetuto che vanno avviati dei processi. Non è un diktat che cambia la storia, è un processo da avviare. La Chiesa risponde a dei bisogni e deve trovare delle risposte».

Le previsioni di monsignor Paglia hanno purtroppo molte speranze di realizzazione e per diverse ragioni. Ma a chi scrive pare che ci sia un problema originario, che ha poi contagiato il corpo ecclesiale, privando il sentire cattolico degli anticorpi necessari per difendersi da questa insidia. Persino tra i tutori del celibato, la resistenza viene indebolita da alcuni luoghi comuni: comunque sia, non si tratta di un dogma di fede; in fondo nella storia della Chiesa è sempre esistita l’ordinazione di uomini sposati; in caso di necessità, l’eccezione confermerebbe la regola; e così via.

Il primo dato, su cui occorre riflettere, è che per tutti i primi sette secoli la Chiesa ha conosciuto sì l’ordinazione di uomini sposati, ma a condizione che costoro abbracciassero la continenza, a partire dall’ordinazione diaconale (e poi da quella suddiaconale). Detto in altro modo: la regola non era che il clero fosse celibe, ma che fosse continente; non c’era distinzione tra la proibizione che diaconi, sacerdoti e vescovi potessero sposarsi e la proibizione che potessero essere ammessi agli ordini maggiori persone che non intendevano vivere in continenza, anche se sposate. Non era dunque ammesso un clero sposato, che continuasse le relazioni coniugali con la propria legittima moglie.

È solo a partire dal Concilio in Trullo del 692, le cui decisioni relative alla continenza furono respinte sia da papa Sergio I, che da papa Costantino I (che pure accettò altri canoni del Concilio trullano), che l’Oriente prese una strada diversa. La Chiesa latina ha invece mantenuto ferma la disciplina, riconosciuta di origine apostolica, di richiedere la continenza ai candidati agli ordini maggiori, siano essi celibi o sposati (per approfondire, rimando al recente libro Vi dichiaro celibi e casti).

Il fatto che, durante il Sinodo amazzonico, l’opzione di un clero sposato ma continente non sia stata minimamente presa in considerazione è già piuttosto eloquente. Ma perché la Chiesa antica e poi la Chiesa latina non hanno ammesso concessioni su questo punto? La chiave di volta è che la «legge indissolubile» della continenza, come la definisce papa Siricio, è profondamente legata ai doveri del ministero, all’offerta dei sacrifici. La Chiesa antica non dice molto di più, ma ci fornisce una spia importante, che, alla luce anche degli sviluppi più recenti, permette di cogliere il cuore dell’obbligo della continenza.

Sappiamo bene che il sacerdozio ordinato differisce essenzialmente dal sacerdozio comune battesimale, per la particolare configurazione a Cristo Sacerdote. Si può esercitare il ministero sacerdotale di Cristo, perché si è ricevuto un sacramento che associa al Suo sacerdozio. Con il battesimo noi veniamo incorporati nella Chiesa (ed in tal modo a Cristo), ma chi riceve l’ordinazione si sposta, per così dire, dalla parte di Cristo Sacerdote e sta “di fronte” alla Chiesa. Come ha brillantemente messo in luce Marianne Schlosser, nel suo recente intervento al simposio “Sfide attuali per l’ordine sacro” (28 settembre 2019, Pontificio Collegio Teutonico), «chi riceve il sacramento dell’ordinazione sacerdotale è abilitato a “rappresentare” il Signore della Chiesa, a rendere visibile in lei Cristo come controparte permanente della Chiesa». Cristo sta di fronte alla Chiesa, come Adamo ad Eva, e la unisce a Sé, divenendo una sola carne con lei, come lo sposo con la sposa.

È esattamente l’insegnamento di San Paolo (cfr. Ef 5, 30-31) sul sacramento del matrimonio, in relazione a Cristo Sposo e alla Chiesa Sposa. E Cristo riconquista la sua sposa, che era divenuta meretrice (ricordate il simbolismo delle nozze del profeta Osea?), precisamente mediante il suo sacerdozio, nel quale Egli offre Sé stesso sull’altare della croce. San Giovanni rivela questo senso sponsale, preannunciato alle nozze di Cana (cfr. Gv 2, 1-11), nel suo racconto della crocifissione, allorché la Chiesa, presente sotto la croce nella persona di Maria Santissima, nasce dal fianco aperto di Cristo, come la nuova Eva nata dal fianco del nuovo Adamo e per questo chiamata a tornare una sola carne con Lui. È ancora nel quarto Vangelo che abbiamo la confessione del rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, per bocca del Battista, amico dello sposo: «Colui che ha la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, si rallegra vivamente alla voce dello sposo; questa gioia, che è la mia, è ora completa» (Gv 3, 29).

Cristo è dunque lo Sposo-Sacerdote; è in questo quadro che occorre capire il senso del suo celibato. Quella del Signore Gesù non è stata una scelta “personale”, nel senso che non è stata espressione di una sensibilità privata o di un’esigenza ascetica; il suo celibato è conseguenza della sua sponsalità con la Chiesa. Gesù non ha avuto una moglie in carne e ossa, precisamente perché doveva unire a Sé un’altra sposa: la Chiesa. Il suo corpo è rimasto vergine, perché doveva essere offerto totalmente alla sua sposa sulla croce, così come nel matrimonio carnale gli sposi si donano reciprocamente ed esclusivamente anche mediante il proprio corpo, che significa la donazione più piena delle proprie persone.

C’è dunque un legame essenziale tra il sacerdozio di Cristo, la sua sponsalità e il suo essere celibe. Il sacerdote, poiché viene configurato a Cristo, viene configurato anche alla di lui sponsalità e al suo celibato ed è perciò chiamato a vivere anche nel proprio corpo la sponsalità con la Chiesa. È in questi termini che si espresse San Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis: «[la legge ecclesiastica sul celibato], in quanto legge, esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la volontà del soggetto espressa dalla sua disponibilità. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa» (§ 12).

È allora evidente, come afferma ancora con chiarezza la Schlosser, che «proprio perché il matrimonio non è una questione periferica della vita umana, ma una comunione unica ed esclusiva tra un uomo e una donna che forma e rivendica profondamente le due persone in tutte le sue dimensioni, si può “convenientemente” intendere che un uomo che è stato assunto con tutta la sua persona alla missione di Cristo, non può appartenere a un’altra persona umana, come un marito a sua moglie». È per questo che la legge della continenza implica insieme sia che il sacerdote non si sposi, sia che chi è sposato non venga ordinato, a meno che non cessi la relazione coniugale con la propria moglie, come attestano numerose fonti della Chiesa antica.

È centrale comprendere che la presenza del sacerdote celibe o almeno continente non è solo un richiamo morale alla virtù di castità, ma è il segno della permanenza di Cristo Sposo e Sacerdote nella sua Chiesa; Cristo vuole rimanere nella sua Chiesa, afferma ancora la Schlosser, «non solo come dono di salvezza», cioè nell’Eucaristia, «ma anche come donatore», cioè come sacerdote e sposo. È questa permanenza che ci rivela il senso vero, soprannaturale della Chiesa e di ogni anima, ossia la chiamata alla donazione totale di sé a Cristo. Ex parte Ecclesiae, la verginità consacrata rende presente nella propria carne la vocazione degli uomini ad unirsi a Cristo Sposo; ex parte Christi, invece, il sacerdote continente rende presente l’attesa dello Sposo di unirsi alla sposa.

Se il papa dovesse accettare la proposta presente nel par. 111 del documento del Sinodo, ci troveremmo di fronte ad una vera e propria violazione della legge della continenza, perché, con lo scopo di sopperire alla carenza di vocazioni, si verrebbe di fatto a creare una classe di sacerdoti uxorati, non tenuti alla continenza; il che, tradotto, significa pensare a due modalità di vivere la conformazione a Cristo: una continente e l’altra no, ovvero una configurata alla sua sponsalità e l’altra no.

E c’è da temere che questo cedimento si verificherà, come conseguenza inevitabile di una comprensione secolarizzata della Chiesa e della sua missione (vedi qui). Se la missione della Chiesa diviene principalmente, o persino esclusivamente, di natura umana, quando non addirittura mondana, è chiaro che il ministero sacerdotale viene declinato in modo sempre più funzionalistico, fino a perdere di vista la sua natura di epifania del sacerdozio e della sponsalità di Cristo.

In una Chiesa che si autocomprende come associazione caritativa, ospedale da campo, dispensatrice automatica di sacramenti, movimento per un’ecologia integrale, non è più necessario avere un clero esclusivamente continente, se non per la maggiore disponibilità di tempo che può avere, per la sua maggiore mobilità o anche per rispetto del valore della castità, ma non più per il significato sponsale impresso nel suo corpo; non è più l’incarnazione del sacerdozio e della sponsalità di Cristo. Il celibato può quindi continuare ad essere compreso come un valore che alcuni, forse i più, continueranno a scegliere; ma di certo non è più quella «legge indissolubile» che esprime il rapporto esclusivo tra Cristo e la Chiesa.

Così come la fedeltà nel matrimonio al proprio coniuge è sì ancora un valore, al quale però si è voluto affiancare il “valore” della fedeltà a una persona che coniuge non è. Ma questo è stato un altro Sinodo, al quale quello amazzonico risulta profondamente legato. Nel tradimento a Cristo e alla Chiesa.