Celebrare Messa sarebbe obbedienza piena
Non è una scappatoia per aggirare la legge: celebrare la Messa in questo tempo è un atto di obbedienza piena. Si tratterebbe di un caso di epicheia, virtù citata a sproposito per permettere la Comunione ai divorziati risposati, ma che invece si adatta perfettamente al caso delle Messe proibite per coronavirus.
C’era una volta l’epicheia. Non so se il lettore ricorda il Sinodo sulla famiglia e l’apertura della Comunione ai divorziati-risposati che continuano a vivere more uxorio. All’epoca, i difensori della “svolta misericordiosa della Chiesa” andarono a scomodare San Tommaso d’Aquino, proprio sulla virtù dell’epicheia, per legittimare l’inammissibile (vedi qui).
Eppure l’epicheia, chiamata anche equità, è veramente una virtù fondamentale per poter aderire sempre a quella prima regula «che deve regolare tutte le volontà create», ossia la volontà di Dio (cf. Summa Theologiae, II-II, q. 104, a. 1 ad. 2). Perché può capitare che delle leggi, date da autorità legittime, finiscano, in alcune situazioni, per andare proprio contro quel bene comune che mirano a tutelare.
Tommaso fa presente che vi sono dei casi in cui «sarebbe un peccato seguire materialmente la legge», mentre invece è «un bene seguire ciò che esige il senso della giustizia e il bene comune, trascurando la lettera della legge» (II-II, q. 120, a. 1).
Occorre subito fare una precisazione, perché noi siamo, volenti o nolenti, impregnati di una concezione positivista del diritto e della giustizia, che è all’origine di molti mali del nostro tempo e che è l’alimento principale delle svolte dittatoriali, inclusa quella in atto. La virtù dell’epicheia ci mette in guardia da due derive piuttosto comuni, entrambe legate ad una concezione legalistica della norma: da una parte la ricerca delle scappatoie, delle eccezioni, delle dispense, per scaricarci dalla fatica che l’obbedienza alla legge comporta; dall’altra un’obbedienza legalistica, che si accontenta di rispettare la norma, ma perde di vista la virtù di giustizia ed il bene comune. Tant’è vero che Tommaso non pensa all’epicheia come ad una specie di benevolenza o di approssimazione; al contrario essa è definita «come una regola superiore degli atti umani» (II-II, q. 120, a. 2): superiore non alla giustizia, ma a quella giustizia legale «che si limita a osservare letteralmente la legge» (Ibi, ad 2).
Per quale ragione l’epicheia è una regola superiore? Perché mira ad adempiere il bene della legge, che è caratterizzato dalla ratio iustitiae e dalla communis utilitas, andando oltre la lettera, allorché la lettera finisca per ledere questi due principi, che sono il costitutivo di ogni legge e ciò che può vincolare in coscienza all’obbedienza.
Veniamo alla situazione attuale. Non sono pochi i sacerdoti che vorrebbero andare incontro alle reali necessità spirituali dei fedeli, costretti da oltre un mese ad essere privati delle Sante Messe e, in molti luoghi, anche della Santa Comunione e della Confessione. Una situazione che perdurerà di certo fino all’inizio del mese di maggio e temiamo anche oltre. Ma molti di loro hanno scrupolo di “disobbedire”: alla CEI, al proprio vescovo, al proprio superiore religioso, all’autorità civile.
Le norme che sono state diffuse dai vescovi presumibilmente intendono (ratio iustitiae) limitare la diffusione del contagio (communis utilitas). Tuttavia trascurano decisamente un altro bonum, superiore a quello della salute fisica, ovvero la salus animarum, che – guarda caso – è (o dovrebbe essere) la suprema lex di ogni azione della Chiesa. Il punto da capire è che Dio ha stabilito di comunicare la sua grazia tramite i canali sacramentali, ai quali noi siamo legati. Certamente, Egli non è legato a questi mezzi, ma noi sì. Questo significa che nell’impossibilità effettiva di accedere ai sacramenti - perché si è malati, o perché il sacerdote non è raggiungibile in un tempo ed uno spazio ragionevoli -, Dio è sovrano e può dispensare quella grazia sacramentale anche senza il sacramento.
Ma quello che stiamo vivendo è ben altro: i sacerdoti ci sono, la gran parte delle persone non sono malate; ergo, siamo tenuti ad accostarci ai sacramenti. E i sacerdoti che rimangono fedeli alla loro identità sacerdotale fanno bene a venire incontro all’esigenza soprannaturale delle anime che chiedono, debitamente disposte, i sacramenti.
E il contagio? Visto che si può andare al supermercato, in tabaccheria, in edicola e sull’autobus, con analoghe precauzioni, si può anche andare alla Messa e a ricevere i sacramenti. Punto.
I sacerdoti che hanno trovato il coraggio di fare questo, anche andando formalmente contro le disposizioni dei propri vescovi, sono più pienamente obbedienti di quanti si sono invece fermati alla lettera. Ed hanno seguito l’esempio di Cristo stesso e degli Apostoli, che non hanno esitato a disobbedire a norme volute dalle legittime autorità religiose del tempo - delle quali Gesù ha persino detto «quanto vi dicono, fatelo e osservatelo» (Mt 23, 3) -, per obbedire a principi più alti, a Dio stesso.
Che lo sappiano o no, questi sacerdoti hanno agito secondo la virtù dell’epicheia, pienezza della giustizia e dell’obbedienza; non un’eccezione all’obbedienza, o un’obbedienza imperfetta, ma esattamente il contrario.
Monsignor Athanasius Schneider è uno dei pochi vescovi che ha alzato la voce per scuotere i sacerdoti dalla paura e dalla falsa coscienza di un’obbedienza formale: «I sacerdoti devono ricordare che sono prima di tutto e soprattutto pastori di anime immortali. Devono imitare Cristo, che ha detto: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge” [...] Se un sacerdote osserva in modo ragionevole tutte le precauzioni sanitarie necessarie e usa discrezione, non deve obbedire alle direttive del suo vescovo o del governo di sospendere la Messa per i fedeli. Tali direttive sono una pura legge umana; tuttavia, la legge suprema nella Chiesa è la salvezza delle anime. I sacerdoti in una tale situazione devono essere estremamente creativi per provvedere ai fedeli, anche per un piccolo gruppo, alla celebrazione della Santa Messa e alla ricezione dei sacramenti. Questo era il comportamento pastorale di tutti i sacerdoti confessori e martiri al tempo delle persecuzioni». Un bene più alto, una legge superiore: a questo mira l’epicheia.
Coraggio, sacerdoti! E coraggio anche ai fedeli. Dobbiamo scuoterci. C’è una parte del mondo laico che si è accorto della deriva totalitaria che questa situazione emergenziale sta prendendo; e noi cattolici, cosa facciamo? Noi che sappiamo che la Messa è più necessaria all’umanità di quanto lo sia il Sole; noi che sappiamo per fede che l’Eucaristia ci è più necessaria del pane; noi che abbiamo promesso di mettere sempre Dio al primo posto, prima della nostra stessa vita; noi, accetteremo, per una malintesa obbedienza e prudenza, che il dono totale di Sé che Cristo ha fatto nell’Eucaristia, rimanga chiuso nei tabernacoli?
Postilla: tutti quei vescovi e teologi che invocavano l’epicheia ai tempi di Amoris Laetitia, non pare siano così zelanti in questa situazione. Dai frutti, riconoscete l’albero.