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IL LINGUAGGIO PANDEMICO

"Casi", la parola apriscatole dei media mainstream

Sono già dei mesi che i medici sul campo segnalano che il virus si è come spento, ha perso la carica virale, che i decessi sono decisamente calati sia nei paesi del lockdown sia in quelli più blasé, e che le terapie intensive sono vuote. Allora che fanno i media mainstream? Danno i numeri dei malati e dei decessi? No, parlano di “casi”.  

Attualità 18_08_2020

Sono già dei mesi che i medici sul campo segnalano che il virus si è come spento, ha perso la carica virale, che i decessi sono decisamente calati sia nei paesi del lockdown sia in quelli più blasé, e che le terapie intensive sono vuote. Allora che fanno i media mainstream? Danno i numeri dei malati e dei decessi? No, parlano di “casi”.  

Quale forza si può nascondere in una parola! Nella crisi del 2008 la parola fondamentale era spread. Nella crisi da post-emergenza sanitaria 2020 tutto ruota intorno alla parola “casi”, in inglese “cases”. Ognuno è libero di attribuire a questa parola il significato che crede, ma siccome i casi aggregati vengono definiti “focolai”  e sono citati in articoli che finiscono sempre con l’invito a mantenere alta la guardia “per non sprecare i sacrifici fatti in tanti mesi…”, il pubblico tende a considerarli ammalati. 

Errore: casi e cases, nella stampa sia italiana sia americana, che in questo periodo sembrano marciare di pari passo in maniera impressionante, indicano semplicemente le persone che hanno contratto l’infezione, malate o no.

In un articolo intitolatoIl colpo di Stato Covid”, Angelo Codevilla, professore emerito di Relazioni Internazionali alla Boston University, fa notare che in marzo e aprile le autorità avevano definito “casi” tutte le persone ammalate di qualsiasi cosa, abbastanza da finire in ospedale, se allo stesso tempo risultavano positive al COVID19. Questo numero andò a formare la “curva” che si doveva appiattire a costo di qualunque  sacrificio. Arrivati a maggio, con gli studi non ufficiali che dimostravano come la maggioranza di chi testava positivo al COVID a malapena sapeva di essere stato infettato, le autorità invece di dichiarare il cessato allarme raddoppiarono gli sforzi, cominciando ad etichettare come “casi” tutte le infezioni riscontrate, anche in persone non ammalate di nulla. Inoltre separarono i rapporti su questi casi dai rapporti sul numero dei decessi, in modo tale da ammonire il pubblico che i “casi COVID” erano in aumento. Infine, scrive Codevilla, sono passati allo screening a vasto raggio, che accerta tutte le infezioni da coronavirus contratte adesso e in passato,  nella certezza che tali test produrranno un numero crescente di nuovi “casi”. 

Viene da domandarsi: che pandemia è ormai, se per sapere chi è infetto bisogna ricorrere alle analisi di laboratorio? E perché non si ricorda che la percentuale dei positivi che si ammalano va dal 4 al 5 per cento? 

Se, inoltre, come affermano esperti come il prof. Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri di Milano, la carica virale del virus è ormai bassisima, allora l’aumento dei casi positivi nella popolazione sana non dovrebbe essere considerato un bene? Non è questa la funzione dei tanto auspicati vaccini?  

Invece si continua a rispondere che sono proprio gli asintomatici quelli più pericolosi, un dato oltretutto tutt’altro che certo, alla luce delle parole  di inizio giugno della dott.ssa Maria Van Kerkhove dell’OMS, secondo cui, sulla base dei tracciamenti effettuati nei vari paesi, il contagio da portatori asintomatici risultava “molto raro”. È vero che pochi giorni dopo la stessa  epidemiologa si è affrettata a dichiarare che trattavasi di equivoco e che in realtà intendeva dire che i contagi da asintomatici non si sa quanti siano, producendo una stima del 40 per cento direttamente contraria a quel “molto raro” dichiarato pochi giorni prima.  Ma in assenza di dati certi, basta questa ritrattazione, presentata come se stesse dicendo la stessa cosa, per continuare sui media l’allarme quotidiano sul numero dei “casi” divorziato da ogni riferimento ai malati e ai decessi? 

Sui mainstream non si evidenzia che i casi confermati positivi dipendono direttamente dal numero dei test effettuati, come non vi compare che a fronte di un aumento di casi positivi i decessi siano in netta discesa, come osservato in questi giorni dal Direttore della clinica malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova,  Matteo Bussetti.

Principalmente, la domanda che manca, dopo il barrage di “casi” quotidiani, è questa: quanto è letale oggi il Covid-19? (letalità= casi / decessi; mortalità= popolazione/casi) La risposta è interessante alla luce degli elogi che l’Italia sta ricevendo oggi sulla stampa internazionale: da noi risultano morti in oltre 35mila, ma su 252mila casi confermati, ovvero quasi il 14%. Il confronto va fatto in percentuale, non in numeri assoluti. Con gli Usa del vituperato Donald Trump (da notare peraltro che la competenza sulla sanità non è di Washington ma dei governatori dei singoli stati), ad esempio, dove i decessi sono stati 166mila, su 5.200.000 casi confermati dà una  letalità del 3,19%. Stessa cosa nel Brasile del vituperato Bolsonaro, 105.463 morti su 3.200.000 casi: fanno il 3,3%.   

Il dato disastroso per l’Italia ovviamente è dovuto al numero enorme di decessi avvenuti nelle fasi iniziali, quando gli ospedali, sommersi dai pazienti a causa dell’altissima contagiosità del virus, non sapevano ancora come curarli e avevano a disposizione dei protocolli inutili se non sbagliati. Adesso vivaddio, come attestato da tanti primari, le terapie intensive sono vuote. 

Il problema è che gli articoli che all’estero segnalano l’esperienza italiana come modello da copiare esaltano il lockdown, non i veri successi che hanno permesso di conoscere e curare il morbo, quali le prime autopsie e la cura con il plasma dei guariti elaborata dal San Matteo di Pavia, inspiegabilmente emarginato rispetto alla sperimentazione ufficiale di questa cura, affidata dal governo all’Università di Pisa.  

Oggi sappiamo che il lockdown radicale di tutta Italia, imitato da altri paesi e tanto elogiato dalla stampa estera, non si basava su evidenze scientifiche. Lo abbiamo imparato dal Comitato Tecnico-Scientifico della Protezione civile, perché i verbali desecretati, su istanza FOIA della Fondazione Einaudi, dimostrano che gli esperti non avevano affatto consigliato il confinamento di tutta Italia, ma solo delle zone critiche colpite del Nord. Ma anche qui, si tratta di notizie che non vengono riportate dai mainstream, che si sono limitati, quando va bene, a riferire in pagina interna solo le parole di Matteo Salvini al riguardo, come se fosse un’opinione di parte.  

Così allo stato attuale risulta nero su bianco che il lockdown dell’intero Paese sia stata una decisione non scientifica o medica ma politica, autonoma, del governo II di Giuseppe Conte, tanto da scatenare più di una  denuncia per delitti colposi contro la salute pubblica, con tanto di avvisi di garanzia al Premier e al governo. Ma all’estero, dove ci tributano elogi, difficilmente notizie del genere escono sui mainstream, che riportano solo le notizie che figurano sui corrispondenti mainstream nostrani.