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Carlassare, un vescovo nella guerra tribale del Sud Sudan

Sopravvissuto all'attentato di Rumbek, nel Sud Sudan, il vescovo Christian Carlassare conferma l'ipotesi di un attentato di matrice tribale. Parroco di uno Stato a maggioranza Nuer, una volta nominato vescovo, è finito nel mirino dei Dinka. 

Ecclesia 26_07_2021
Papa Francesco e Salva Kiir

Sono trascorsi tre mesi dall’aggressione a monsignor Christian Carlassare, il missionario comboniano che era stato nominato  poche settimane prima vescovo della diocesi di Rumbek, una città delle principali città Sudan del Sud. Nella notte tra il 25 e il 26 aprile due uomini armati erano penetrati in casa sua e lo avevano ferito gravemente sparandogli diversi colpi di arma da fuoco alle gambe. Monsignor Carlassare adesso è in Italia per concludere a Schio, il suo paese di origine, la convalescenza e il recupero totale, prima di ripartire per assumere la guida della sua diocesi.

Fino a qualche giorno fa si trovava a Nairobi, la capitale del Kenya, dove era stato subito trasferito per ricevere cure che gli ospedali del Sudan del Sud non erano in grado di prestargli e dove è stato sottoposto a sei interventi chirurgici. Alla agenzia di stampa Fides ha rilasciato una intervista in cui ha rievocato i drammatici momenti dell’attentato, ha parlato dei suoi progetti per il futuro e della situazione del Sudan del Sud, devastato da una guerra etnica scoppiata nel 2013, due anni soltanto dopo l’indipendenza dal Sudan.

Monsignor Carlassare vi era arrivato nel 2005, proprio l’anno dell’accordo globale di pace che ha messo fine alla guerra pluridecennale tra il nord e il sud del Sudan, prevedendo dopo sei anni quel referendum grazie al quale i popoli del sud hanno scelto la secessione. Scorrendo la sua biografia si legge che la sua prima destinazione era stata il Jonglei (uno dei dieci Stati del Sudan del Sud), dove ha imparato la lingua dell’etnia Nuer maggioritaria in quel territorio, e che fino al 2016 è stato parroco della parrocchia della Santissima Trinità della contea di Fangak, nel medesimo Stato.

Queste informazioni forniscono la chiave per capire come mai monsignor Carlassare è stato vittima di un attentato. Fin dalle ore immediatamente successive all’aggressione era trapelato che si trattava di una questione etnica e che si sospettava fossero coinvolti dei membri della diocesi. Il motivo è che Rumbek è la capitale dello stato dei Laghi, abitato in maggioranza da gente di etnia Dinka, con solo una minoranza Nuer. Dinka e Nuer sono le due tribù più numerose e potenti. La guerra è scoppiata tra di loro, per la spartizione del potere.

Un confratello di monsignor Carlassare, sotto anonimato aveva detto all’indomani dell’attentato: “lo scopo della visita non era la rapina. Crediamo volessero spaventarlo affinché se ne vada da Rumbek. Siamo convinti che vi siano gruppi che non vogliono un vescovo straniero, ma un Dinka, l’etnia maggioritaria nella zona. L’alto livello di tribalismo presente nelle contee meridionali del Sud Sudan vede in un Vescovo straniero una minaccia”. Padre Filippo Ivardi Ganapini, direttore della rivista “Nigrizia”, il mensile dei missionari comboniani, aveva spiegato: “probabilmente a qualcuno non andava giù che un giovane venuto da lontano e che avesse lavorato per quindici anni con l’altro gruppo etnico preponderante nel paese, i Nuer, fosse stato scelto proprio per guidare la Diocesi”.

Adesso monsignor Carlassare lo conferma: “i sei attualmente in carcere fanno parte di una famiglia che ha agito per interessi clanici che, con tutta probabilità, andavano a cozzare con la mia nomina”. A proposito del fatto che gli attentatori provengano da ambienti cattolici, “mi preme di ribadire – dice – che se una famiglia spinge per i propri interessi fino a usare la violenza, poco importa se sia cristiana o di altre fedi”. “Alla fine – aggiunge – hanno attirato su di sé molto risentimento dalla maggior parte della popolazione mentre nei miei confronti c’è stata una vera gara di solidarietà, sia dalla gente di Rumbek che da sud sudanesi in Kenya, che sono venuti a trovarmi: una reazione molto positiva che fa sperare che la popolazione si schieri contro la violenza insensata”.

Ma è una illusione. Nel Sudan del Sud l’avversione tribale, a livello popolare, aveva raggiunto livelli tali di violenza, di ferocia, nella fase peggiore del conflitto,  da far dire agli osservatori internazionali che il paese era sull’orlo del genocidio. Anche adesso si combatte, la sfida tra Dinka e Nuer continua, con le etnie minori schierate con gli uni o con gli altri a seconda dell’affinità e della convenienza.  Lo stesso monsignor Carlassare mostra di essere consapevole delle difficoltà, nonostante le espressioni di fiducia. “Ci sono notizie di continui scontri e situazioni gravi che vanno risolte nei territori localmente – spiega a Fides – un classico esempio è lo Stato dell’Alto Nilo, vessato da forti tensioni a causa delle terre assegnate con un sistema tribale che non può funzionare. La gente deve essere educata a vivere insieme”.

Invece il tribalismo inquina persino sacerdoti e religiosi, come dimostra il suo caso, e non è neanche la prima volta che in Africa una comunità cattolica respinge le decisioni prese in Vaticano senza tener conto del fattore etnico. Casi clamorosi, degenerati in intimidazioni e violenze si sono verificati ad esempio, nel 2012 in Nigeria e nel 2011 in Sierra Leone. In Nigeria Monsignor Opkaleke non ha mai messo piede nella sua sede vescovile di Ahiara per l’implacabile ostilità di clero e fedeli, irremovibili nel rifiutare “un estraneo” come pastore: “lui non è il nostro vescovo, piuttosto siamo pronti a continuare senza un vescovo”. Gli abitanti della diocesi di Ahiara, nello stato sudorientale di Imo, sono quasi tutti di etnia Mbaise, una delle molte tribù del grande gruppo etnico Ibo. Anche Monsignor Opkaleke, originario del vicino stato di Anambra, è un Ibo, ma di un’altra tribù, ed è per quest’unico motivo che la popolazione non ha accettato la sua nomina ed è insorta.

Anche monsignor Henry Aruna non si è mai insediato nella diocesi di Makeni, in Sierra Leone. La decisione del Vaticano di sostituire con un sacerdote africano il vescovo italiano Giorgio Biguzzi, che per raggiunti limiti d’età lasciava l’incarico ricoperto per 24 anni, aveva destato l’entusiasmo dei fedeli e del clero. Ma la gioia ha presto lasciato il posto a una rabbia incredula non appena si è sparsa la notizia che la scelta del successore era caduta su padre Aruna, un sacerdote di etnia Mende, la seconda etnia della Sierra Leone, ma concentrata nel sud, mentre Makeni è al nord ed è il territorio dei Temne.

Per tanti studiosi, missionari, cooperanti in Africa il tribalismo non esiste, se non forse come creazione recente, estranea alla società africana prima della colonizzazione europea che avrebbe creato fratture insanabili dove avevano regnato tolleranza e rispetto per secoli. Ancora una volta il Vaticano ha scelto di non tenerne conto. Monsignor Carlassare ha deciso di raccogliere la sfida.