Carestia, così muoiono i bambini nell'Africa orientale
Poche strutture, vecchie tradizioni (come il prezzo della sposa) ed epidemie: così in tempo di carestia i bambini muoiono come mosche in Somalia e nel resto dell'Africa orientale. Si tratta di una piaga che si porterà via, secondo le previsioni, circa mezzo milione di vite. E neppure per i sopravvissuti si prospetta un futuro roseo.
Iman, una bimba somala di sette anni, è morta di colera ad aprile. Quella mattina era andata a scuola. Tornata a casa ha aiutato come al solito sua mamma nelle faccende domestiche. Nel tardo pomeriggio però ha incominciato a stare male: vomito e dissenteria. I vicini, visto il rapido peggioramento delle sue condizioni, hanno consigliato alla mamma di portarla a Baidoa per farla curare nel nuovo ambulatorio, il più vicino al villaggio. Sadiye, la mamma, ha percorso a piedi, nella notte, i 16 chilometri di sentiero sterrato che separano casa sua da Baidoa, portando in braccio la figlia ormai priva di sensi. È stato inutile, poche ore dopo il ricovero la piccola è morta. Sadiye non le era accanto. Era subito tornata indietro a prendere la sua secondogenita, Momeno, quattro anni, anche lei ammalata, per portarla a Baidoa. Momeno era meno grave, lei e il fratellino di due anni ricoverato nei giorni successivi sono salvi, almeno per il momento.
Così muoiono i bambini in Somalia e negli altri paesi in cui è stato dichiarato lo stato di carestia nelle scorse settimane: alcune regioni del Sudan del Sud, il nord est della Nigeria e lo Yemen. Iman era da tempo malnutrita, indebolita dalla scarsa alimentazione. Un bambino in quelle condizioni può morire di colera in poche ore. L’Unicef il 2 maggio ha detto che in Somalia 1,4 milioni di bambini soffrono di malnutrizione acuta, il doppio rispetto a un mese prima: “la probabilità che muoiano di colera, dissenteria o morbillo è nove volte superiore a quella di un bambino ben nutrito”. Dati ufficiali indicano in 550 i morti di colera e dissenteria dall’inizio del 2017, ma sono solo quelli registrati – avverte l’Onu – i decessi potrebbero essere dieci volte più numerosi.
Durante l’ultima carestia verificatasi nel mondo, nel 2011, in Somalia, si stima che siano morte più di 250.000 persone. Oltre la metà erano bambini di età inferiore a cinque anni, molti dei quali uccisi dal morbillo. Questa volta si spera di poter contenere i danni, ma si prevedono non meno di 60.000 vittime nella migliore delle ipotesi. “La risposta della comunità internazionale – dice il rappresentante dell’Onu in Somalia Michael Keating – è stata finora straordinaria, ma i bisogni superano la capacità di intervento”. Da gennaio ad aprile nella sola Baidoa i malati di morbillo ricoverati nelle strutture sanitarie sono stati 5.700, più del totale raggiunto nel 2016.
Oltre 20 milioni di persone vivono nei territori in cui è stato dichiarato lo stato di carestia. Ma la crisi umanitaria attuale si estende a molte altre persone, anch’esse in gravi difficoltà benchè i loro governi si siano limitati per ora a proclamare lo stato di emergenza o di calamità. Di carestia si tratta infatti quando in una regione almeno il 20% delle famiglie ha estrema scarsità di cibo, oltre il 30% soffre di malnutrizione acuta e, ogni 10.000 abitanti, due o più al giorno muoiono di fame e stenti. Non è il caso, ad esempio, di due stati confinanti con la Somalia, il Kenya e l’Etiopia, dove tuttavia, a causa di una siccità prolungata, i pastori hanno perso migliaia di capi di bestiame, gli agricoltori fino al 75% dei raccolti.
Tra le carestie più devastanti nella storia recente del continente africano c’è quella scoppiata in Etiopia tra il 1983 e il 1985. Si prese la vita di almeno 400.000 persone. 300.000 morirono in Somalia durante la carestia del 1991-1992, all’inizio della guerra civile. Da 500.000 a due milioni si calcolano le vittime della carestia causata alla fine degli anni 60 in Nigeria dalla guerra di secessione del Biafra.
Passerà anche questa crisi. Alla fine il bilancio delle vittime, oltre che dei morti, dovrà tenere conto dei tanti sopravvissuti che ne porteranno le conseguenze negative a lungo, molti per sempre: i bambini rimasti orfani, quelli nati sottopeso e con altri problemi perchè le loro mamme durante la gravidanza hanno patito la fame, quelli ai quali la malnutrizione acuta rallenterà lo sviluppo fisico e intellettivo provocando ritardi nella crescita e danni permanenti fisici e mentali che impediranno loro di diventare adulti autosufficienti.
Tra i bambini più sfortunati il cui destino sarà duramente segnato dalla carestia, per sempre, ci sono le bambine in questi giorni sposate a forza dai genitori per ricavarne il prezzo della sposa, una istituzione tribale ancora molto diffusa in Africa anche in tempi normali – gli uomini devono pagare un compenso alla famiglia della donna che intendono sposare – e che diventa se possibile più brutale e dolorosa in momenti di crisi. Nell’entroterra arido della costa swahili del Kenya ci sono famiglie in difficoltà che scelgono di anticipare il matrimonio di una figlia bambina o appena adolescente, concessa in moglie in cambio dei beni che il marito, quasi sempre un uomo maturo, è disposto a sborsare per averla: qualche capra o una mucca, un po’ di denaro, generi alimentari, capi di vestiario.
Le carestie nei secoli hanno scandito la storia in Kenya. Un tempo i popoli bantu dell’interno, se il cibo mancava, consegnavano le figlie alle famiglie dei mercanti arabo-swahili delle ricche città costiere in cambio di uno o due sacchi di mais: date in pegno, costrette in condizione di schiavitù fino a quando i genitori non le riscattavano, restituendo in avorio o altro il valore del mais ricevuto. Spesso però non succedeva, le loro famiglie non riuscivano a risparmiare o preferivano usare diversamente i loro beni.