Calvino e Pascal: il divertissement e la «canna pensante»
L’uomo ha una facoltà che non è data agli altri esseri viventi, quella di percepire sé all’interno del mondo e del cosmo: è questo uno dei tanti punti di contatto tra lo scrittore italiano e il filosofo francese.
Gurdulù esiste, ma non ne è cosciente. È ancora un uomo colui che ha smarrito la consapevolezza o che, pur crescendo nel corpo, non matura anche nella coscienza? Pavese, maestro di Calvino, apre il suo diario Il mestiere di vivere citando la frase shakespeariana Ripeness is all ovvero «la maturità è tutto».
Calvino sembra condividere la convinzione che l’uomo che non sa di esserci non possa più definirsi davvero uomo. Gurdulù, infatti, crede talvolta di essere anatra, altre volte interpreta la pianta con i suoi rami. Ne I pensieri il filosofo francese Blaise Pascal, di cui si celebrano quest’anno i quattrocento anni dalla nascita, intellettuale dotato di grande intelligenza e predisposizione per lo studio della matematica e della fisica, morto a soli trentanove anni, riconosce la grandezza dell’uomo proprio nell’essere «canna pensante». Infatti, scrive: «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente».
Poco dopo, ancora afferma: «La grandezza dell’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile. Dunque, essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande equivale a conoscere di essere miserabile».
L’uomo ha una facoltà che non è data agli altri esseri viventi, quella di percepire sé all’interno del mondo, della natura, degli spazi smisurati dell’universo e del cosmo e di cogliere la sproporzione tra il proprio io piccolo e la maestà e grandezza (che sembra infinita) di quanto ci circonda. L’uomo, inoltre, percepisce la distanza tra l’angusto limite temporale nel quale ci è dato vivere e il tempo degli astri e dell’universo e, ancor più, l’eternità che non riusciamo neanche a pensare: «Tornato alla considerazione di sé, l’uomo esamini ciò che egli è rispetto a ciò che esiste; si consideri come sperduto in questo remoto angolo della natura, e da questa piccola cella dove si trova rinchiuso, voglio dire l’universo, impari a stimare la terra, i regni, le città e se stesso nel loro giusto valore. Che cos’è un uomo nell’infinito? [...] Chi si contempla così, si spaventa di se stesso e considerandosi, nella mole che la natura gli ha dato, come sospeso tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di quelle meraviglie; e credo che, mutando la sua curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a investigarle con presunzione. Che cos’è in fondo l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente e il tutto».
Ecco perché per descrivere la condizione esistenziale dell’uomo Pascal utilizza l’immagine di un marinaio che naviga in un vasto mare, sempre incerto e instabile, sballottato da una parte all’altra, alla ricerca di uno scoglio a cui potersi aggrappare. Il tentativo risulta, però, sempre vano. Per questo, noi ci troviamo in una situazione naturale che è «la più contraria alla nostra inclinazione: desideriamo ardentemente trovare un assetto stabile e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all’infinito, ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra s’apre in abissi».
Gurdulù rappresenta quell’uomo che spesso cerca di dimenticare la condizione esistenziale che vive attraverso la distrazione che Pascal definisce con il termine divertissement. L’espressione (dal latino «divertere» cioè «volgere qua e là», lontano dalla strada principale, dal solco tracciato) ben designa il tentativo, coscientemente o incoscientemente perpetrato, di strapparci dal nostro cuore originario (sede delle domande più autentiche sul significato e sul senso delle cose), di alienarci, di allontanarci da noi stessi, di essere sempre fuori da noi così che «la nostra casa risulta disabitata» (Pascal).
Commenta Carlomagno, che è colui che prova più curiosità per ciò che si vede in giro: «Questo suddito qui [Gurdulù] che c’è ma non sa d’esserci e quel mio paladino là [Agilulfo] che sa d’esserci e invece non c’è. Fanno un bel paio, ve lo dico io». Così, il sovrano decide di affidare Gurdulù ad Agilufo come scudiero.
Finalmente inizia la battaglia raccontata con la sottile ironia della narratrice suor Teodora che descrive la presenza perfino degli intrepreti e dei portaocchiali all’interno degli eserciti. Rambaldo partecipa per la prima volta ad uno scontro armato e si riempie di commozione per le visioni cruente che ricordano che è il caldo sangue umano che muove e dà vigore alle armature.
Rambaldo è salvato dall’intervento di un cavaliere misterioso, che, come si scopre più tardi, è una donna di nome Bradamante, il cui nome è mutuato da una delle eroine dell’Orlando furioso che si sposa al termine del poema con Ruggero dando origine al capostipite della dinastia degli Estensi. Quando la vede presso il greto di un fiume, priva di corazza, Rambaldo se ne innamora a prima vista.
Dinanzi a Bradamante «lo sguardo di Rambaldo» non si ferma «su alcuna osservazione minuta»: vede «tutt’insieme la donna, la sua persona, i suoi colori, e non» può «essere che lei, quella che, senz’averla quasi ancora vista, disperatamente» desidera. Ora, dopo aver raccontato gli scontri militari, suor Teodora deve affrontare le vicende sentimentali: «Dunque anche dell’amore come della guerra dirò alla buona quel che riesco a immaginarne: l’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla».
L’uomo può aver vissuto già tanti anni, eppure quello che sa è ben poco. Proprio da questa consapevolezza nasce il fascino della scoperta, che si verifica quando si affronta la circostanza della vita, come se fosse la prima volta, e allora l’evento accaduto diventa tuo e lo puoi raccontare perché è così personale che interessa tutti o almeno hai l’impressione che così debba essere. Quando un fatto è davvero personale, ti provoca e allora hai l’impressione che debba e possa provocare tutti gli altri.
Forse Bradamante conosce davvero l’amore? Ha mai amato? Annota suor Teodora: «Se le accadeva di incontrare un campione che le pareva rispondesse in qualche misura alle sue pretese, allora si risvegliava in lei la donna dai forti appetiti amorosi. Qui ancora si diceva che ella del tutto smentisse i suoi rigidi ideali: era un’amante a un tempo tenera e furiosa. Ma se l’uomo la seguiva su questa via e s’abbandonava e perdeva il controllo di se stesso, lei subito se ne disamorava e si rimetteva in cerca di tempre più adamantine. Ma chi poteva più trovare?».
Bradamante s’innamora infine di Agilulfo. «Quando una si è tolta la voglia di tutti gli uomini esistenti» riflette un soldato «l’unica voglia che le resta può essere solo quella d’un uomo che non c’è per nulla». Rambaldo, che è innamorato di quella donna, è profondamente sconfortato alla notizia che lei è innamorata del cavaliere inesistente.
La conclusione nella prossima puntata.
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