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AFRICA

Burundi, l'incubo del massacro tra Hutu e Tutsi

 Il Burundi è a un passo dalla guerra, innescata dalla rielezione (contro la Costituzione) del presidente Nkurunziza. All’indomani della sua contestata vittoria elettorale si era detto certo di essere destinato a guidare il Burundi per volontà divina e di avere quindi il diritto di essere presidente fino alla morte.  La guerra rischia di , diventare anche guerra tribale. Il Burundi è infatti il Paese degli Hutu e dei Tutsi, come il vicino Rwanda.

Esteri 21_12_2015
Pierre Nkurunziza, presidente del Burundi

Il Burundi è a un passo dalla guerra. La situazione è talmente grave da aver indotto l’Unione Africana, per la prima volta da quando è nata nel 2002, a dirsi disposta ad applicare la regola che le consente, in violazione del principio internazionale di non ingerenza negli affari interni di un Paese, di intervenire militarmente in uno Stato membro, anche senza l’autorizzazione del governo di quello stato. Lo statuto dell’Ua lo prevede in caso di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità. 

In Burundi i timori di guerra non sono mai cessati del tutto, nonostante gli accordi di pace del 2005 che hanno messo fine a un conflitto tribale durato dieci anni. Da allora il Paese è guidato dal presidente Pierre Nkurunziza che quest’anno ha concluso il suo secondo mandato. Doveva essere l’ultimo, come stabilisce la Costituzione che limita a due gli incarichi presidenziali che un cittadino può ricoprire. Invece Nkurunziza ha deciso di ricandidarsi ed è stato questo a far degenerare una situazione già critica. L’annuncio dato a fine aprile ha scatenato proteste popolari represse duramente dalle forze di sicurezza. Nonostante ciò, e incurante della riprovazione internazionale, Nkurunziza si è candidato e a luglio è stato rieletto: un voto che l’opposizione ha però respinto giudicandolo a ragione invalidato da intimidazioni e brogli da parte del governo. 

Nei mesi successivi il presidente riconfermato ha incominciato a regolare i conti con chi lo aveva contestato, sguinzagliando esercito e polizia. Da aprile gli scontri tra filo presidenziali e opposizione e la repressione governativa hanno causato circa 400 morti, quasi 3.500 arresti e almeno 220.000 tra sfollati e profughi all’estero. Le violenze della scorsa settimana da sole hanno provocato 87 morti. Per il momento, dicono gli osservatori, lo schieramento con l’opposizione o con il governo non è su base essenzialmente etnica: non ancora. Ma se sarà guerra civile, sarà anche guerra tribale. Il Burundi è infatti il Paese degli Hutu e dei Tutsi, come il vicino Rwanda. In Burundi l’ultima ondata di violenza tribale tra il 1994 e il 2005 è costata oltre 300.000 vittime, quasi tutte civili. In Rwanda è andata ancora peggio. L’antagonismo tribale nel 1994 è diventato per gli Hutu progetto di sterminio dei Tutsi. In 100 giorni, a partire dal 7 aprile 1994, gli Hutu – militari e civili – hanno ucciso da 800.000 a un milione di persone: in gran parte Tutsi, ma anche Hutu contrari alla “soluzione finale”. 

Ecco il perché di tanto allarme. Nkurunziza è un Hutu. Da oltre un anno si sa che il suo partito, il Cndd-Fdd, distribuisce armi e divise militari ai giovani miliziani Hutu che formano l’ala giovanile del partito.  L’Ua il 17 dicembre ha dichiarato che non consentirà un genocidio in Burundi: «l’Africa non permetterà un altro genocidio sul suo suolo» si leggeva sul profilo Twitter del Consiglio per la pace e la sicurezza che il giorno dopo ha annunciato di essere pronto a inviare 5.000 militari per proteggere la popolazione civile, violando appunto, se necessario, il principio di non ingerenza. Il governo burundese ha risposto dicendo che non c’è nessun rischio di genocidio e che a diffondere voci in tal senso sono «i nemici del Burundi perché la verità è che il Paese vive in pace». 

Lo scorso mese il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon aveva detto che il Burundi era sull’orlo di una guerra, ma che non c’era ancora bisogno urgente di una forza di pace e pertanto andavano valutate altre opzioni. Ma il 17 dicembre ha definito «agghiaccianti» le violenze in atto. Nell’attesa di una risoluzione del Consiglio di sicurezza che si pronunci su un possibile intervento militare dell’Ua, proseguono e si intensificano le iniziative diplomatiche già avviate dalla Comunità dell’Africa Orientale e dall’Unione Europea. Il 15 dicembre l’Ue ha stanziato una prima tranche di fondi, 300.000 euro, destinati a finanziare l’attività di mediazione in corso, presieduta dall’Uganda.   Pierre Nkurunziza non cederà facilmente alle pressioni internazionali. Reprimere il dissenso a qualsiasi costo è una priorità. All’indomani della sua contestata vittoria elettorale si era detto certo di essere destinato a guidare il Burundi per volontà divina e di avere quindi il diritto di essere presidente fino alla morte. 

Non è l’unico leader africano a rimettersi alla volontà divina. A maggio i presidenti dei 15 Paesi membri dell’Ecowas, la Comunità economica dell’Africa occidentale, hanno respinto all’unanimità la proposta dell’Onu di vietare la permanenza al potere per più di due mandati. In quell’occasione il presidente del Gambia, Yahya Jammet, aveva proclamato: «manterrò gli impegni con i miei cittadini e se dovrò governare per un miliardo di anni lo farò, se Allah lo vuole». Quando a luglio il presidente degli Usa Barack Obama, parlando nella sede dell’Ua ad Addis Abeba, ha ammonito che «nessuno dovrebbe essere presidente a vita», i capi di Stato africani hanno replicato che sarebbe assai antidemocratico negare alla gente la possibilità di rieleggere chi desidera, più e più volte.

«In Inghilterra Elisabetta è regina dal 1952, lo sarà finché non muore e nessuno ha niente da ridire», argomentava il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, «chissà perché io che sono al potere solo dal 1980 dovrei rinunciare». Tre capi di Stato africani hanno ereditato la carica dal padre e sono risoluti a conservarla a vita: Joseph Kabila nella Repubblica Democratica del Congo, Faure Gnassingbe in Togo, Ali Bongo in Gabon.