Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
UN ALTRO GOLPE AFRICANO

Burkina Faso: perché i militari hanno preso il potere

Il Burkina Faso è in festa. Il 25 gennaio migliaia di persone si sono riversate nelle vie della capitale Ouagadougou per manifestare il loro sostegno ai militari che il giorno precedente con un colpo di stato hanno destituito il presidente Roch Kabore. Povertà diffusa e violenza dei jihadisti hanno portato popolo ed esercito all'esasperazione.

Esteri 27_01_2022
Burkina Faso

Il Burkina Faso è in festa. Il 25 gennaio migliaia di persone si sono riversate nelle vie della capitale Ouagadougou per manifestare il loro sostegno ai militari che il giorno precedente con un colpo di stato hanno destituito il presidente Roch Kabore, hanno sciolto governo e parlamento e sospeso la costituzione. Per ore, radunati in Piazza della Nazione hanno suonato e ballato, accompagnati dai clacson delle macchine.

Non è la prima volta che gli abitanti di un Paese africano si rallegrano di un golpe. Anche in Sudan mezzo Paese si è schierato con i militari che lo scorso ottobre hanno sospeso il governo di transizione, insediato nel 2019 in seguito a un altro colpo di stato, e hanno assunto il controllo delle istituzioni politiche. “La gente – spiegava all’epoca monsignor Yunan Tombe Trille, presidente della Conferenza episcopale del Sudan e del Sudan del Sud – è divisa tra chi vuole che il governo di transizione con ministri civili vada avanti (…) e quanti, invece, sostengono la totale presa del potere da parte dei militari che, secondo loro, sono gli unici a poter risolvere la profonda crisi politica e assicurare il pane. I crimini hanno raggiunto un livello mai così alto nella storia, forse proprio per la fame che tanta gente sta sperimentando.”.

Anche nel caso del Burkina Faso la povertà è motivo di profondo scontento. Il 41,4% degli abitanti vive sotto la soglia di povertà, il prodotto interno lordo pro capite è di 857 dollari, la speranza di vita è di 62 anni. Ma a esasperare la popolazione, oltre il limite della sopportazione, è il dilagare della violenza nelle regioni settentrionali confinanti con Niger e Mali dove operano gruppi jihadisti affiliati ad al Qaeda e all’Isis che dal 2015 controllano aree sempre più estese del territorio nazionale. Ormai in 14 delle 45 province del Paese vige lo stato d’emergenza. Le vittime civili dei sempre più frequenti attacchi a villaggi e basi militari dal 2015 a oggi sono passate da 80 a oltre 2mila. Gli sfollati sono circa 1,5 milioni, il 61,5% dei quali minorenni. L’insicurezza ha costretto alla chiusura 3.280 scuole, vale a dire il 13% circa delle strutture scolastiche. Secondo stime governative, 511.221 minori in età scolastica non hanno modo di andare a scuola. Un indicatore del degrado economico e sociale del Paese è inoltre il numero crescente di bambini soldato arruolati dai jihadisti. L’attacco più grave dal 2015 a oggi, quello al villaggio di Solhan lo scorso giugno durante il quale sono state uccise almeno 160 persone, è stato compiuto in gran parte da ragazzini di età compresa tra 12 e 14 anni.

Il presidente Kabore all’indomani della strage aveva dichiarato tre giorni di lutto nazionale e, come già altre volte, aveva esortato la popolazione all’unione contro “le forze del male” annunciando misure drastiche contro i jihadisti. Già nel gennaio del 2021, iniziando il suo secondo mandato presidenziale, si era rivolto alla nazione dicendo di aver incaricato il governo di ripulire le aree infestate dai gruppi terroristici e aveva ribadito l’importanza di realizzare la riconciliazione nazionale e di intensificare la lotta all’impunità e alla corruzione.

Erano gli stessi obiettivi che aveva promesso di perseguire anche durante la prima campagna presidenziale nel 2015, insieme a programmi economici per ridurre la disoccupazione e a piani di sviluppo del sistema scolastico e di quello sanitario. Da allora, invece, la situazione del Paese non ha fatto che peggiorare. Nel novembre del 2021 la popolazione ha reagito con violente manifestazioni antigovernative dopo un attacco jihadista a una base militare conclusosi con la morte di 53 agenti. Il presidente per sedare le proteste ha nominato un nuovo primo ministro e un nuovo ministro della difesa e ha proposto all’opposizione di avviare colloqui per la riconciliazione nazionale. Non è bastato. A gennaio sono state organizzate altre violente manifestazioni di protesta che le autorità hanno represso dispiegando centinaia di agenti.

Quello del 24 gennaio è il sesto colpo di stato da quando il Burkina Faso è diventato indipendente nel 1960 con il nome di Alto Volta. Il nome attuale, che significa “terra degli uomini onesti”, gli è stato dato nel 1983 da Thomas Sankara, autore di un colpo di Stato e a sua volta deposto e ucciso nel 1987 con un golpe organizzato da Blaise Compaore, rimasto poi al potere fino al 2014 quando violente proteste popolari sostenute dall’opposizione e da una parte dell’esercito lo hanno costretto a dimettersi e a lasciare il Paese.

Le Nazioni Unite e la Ecowas, la Comunità economica e di sviluppo dell’Africa occidentale, hanno condannato il golpe e minacciano sanzioni. “La Ecowas non si interessa a noi e la comunità internazionale pensa solo a condannarci – replicano i dimostranti – ma noi, questo vogliamo”. Condanne internazionali e sanzioni forse otterranno niente più che la promessa dei golpisti di ripristinare “appena possibile” la democrazia e riconsegnare il Paese ai politici dopo il periodo di transizione necessario a organizzare nuove elezioni. È quanto Onu, Unione Africa e organismi regionali hanno ottenuto finora dalle altre giunte militari che hanno preso il potere in Africa nel 2021: in Mali, dove i colpi di stato sono stati due in meno di un anno, in Ciad, Guinea Conakry e Sudan.