Buoni propositi (vaticani) e cattive azioni (islamiche)
Due notizie. Una riguarda l’incontro bilaterale nella capitale indonesiana, Jakarta, tra i due ministri degli esteri, vaticano, card. Pietro Parolin, e indonesiano, Retno Masudidi. L’altra, una manifestazione di musulmani ha impedito l’inizio dei lavori per la costruzione di una chiesa cattolica a Java nel distretto di Bekasi.
Sull’agenzia online zenit.org. leggo due notizie contrastanti. Una riguarda l’incontro bilaterale avvenuto il 4 agosto nella capitale indonesiana, Jakarta, tra i due ministri degli esteri, vaticano, cardinale Pietro Parolin, e indonesiano, Retno Masudi. Il succo: «Indonesia e Città del Vaticano hanno deciso di rafforzare le relazioni, avviando una serie di dialoghi interreligiosi». Poi, le consuete dichiarazioni di soddisfazione sull’esito dell’incontro. In particolare, il prelato «ha espresso la propria ammirazione nei confronti del pluralismo armonioso dell'Indonesia» con queste parole: «L'Indonesia è un Paese che offre buoni esempi in termini di armonia interreligiosa. Ci sono molte religioni nel Paese, ma le persone si rispettano a vicenda e sono disposte ad accettare le differenze».
Neanche a farlo apposta, ecco (seconda notizia) che il 10 agosto una “massiccia” manifestazione di musulmani, «durata tutta la giornata», ha impedito l’inizio dei lavori per la costruzione di una chiesa cattolica a Java nel distretto di Bekasi. Il sindaco della città che dà il nome al distretto, musulmano pure lui, investito dalle proteste ha detto che i cattolici erano provvisti di regolare permesso, un permesso ottenuto dopo ben diciassette anni di richieste e cavilli burocratici perché è dal 2006 che per costruire una chiesa, anche protestante, i cristiani devono fare salti mortali tripli, carpiati, all’indietro, senza rete e a occhi bendati. Comunque, i salti li fanno (su terreni di loro proprietà), e la legge, per ora, concede benevola. Solo che, quando la legge è costretta a concedere, ecco che ci pensa la piazza.
Il sindaco, per aver detto che il permesso c’era ed era legale, è stato subito accusato di corruzione. Si è difeso, certo, ma per sicurezza ha pregato i cattolici di lasciar perdere, cosa che questi, vista l’aria che tira, hanno eseguito. Niente chiesa, perché “offenderebbe” i musulmani. Alla faccia dell’armonia religiosa. L’agenzia parla di «gruppi di estremisti» islamici, tuttavia il quotidiano La Stampa dell’11 agosto era di altro avviso: a protestare c’erano praticamente tutti gli abitanti della città. I quali non intendono recedere finché il progetto di costruzione non venga abbandonato e sepolto per sempre. Si dirà che si tratta solo di un episodio, che basta discostarsi dal distretto per ritrovare la famosa armonia. Sarà.
É vero, l’Indonesia è il Paese islamico più grande del mondo, sui 280 milioni di abitanti. Ma i cristiani locali non sono quattro gatti, superano i 28 milioni, cioè costituiscono il 10% della popolazione. Ebbene, dal 2004 - anno dell’intronizzazione del presidente Yudhoyono - al 2011 gli attacchi contro chiese cristiane sono stati ben 286 (dati dell’Aiuto alla Chiesa che Soffre). E il ministro per gli Affari religiosi appartiene al partito islamico indonesiano. Non è un mistero che il Paese abbia virato nella direzione della sharìa, sulla scorta del revival fondamentalista attualmente in atto nell’intero mondo musulmano. Probabilmente il Vaticano sta cercando di mettere in opera una faticosa Ostpolitik anche nei confronti dell’Indonesia, da qui le espressioni molto diplomatiche di Parolin. Ma il punto è un altro. La storia insegna che il “popolo”, da solo, non sviluppa alcuna idea che vada al di là della jacquerie per fame. Le masse si muovono solo quando arriva qualcuno a mettergliele in testa, certe idee. Specialmente se si tratta di idee antistoriche come il ritorno integrale alla religione dei padri.
Il sindaco di Bekasi farebbe bene a indagare discretamente su quel che si predica nelle moschee locali, perché prendendosela con la minoranza cristiana dimostra solo scarsa lungimiranza politica. Certo, il problema investe tutto il Paese, non solo quel distretto. Ma l’Indonesia non ha il petrolio come l’Arabia e il Qatar, perciò le conviene ispirarsi all’Egitto di Al-Sisi. Se darà retta agli imam fondamentalisti per timore di perdere voti o di attirare attentati terroristici, ripiomberà nel sottosviluppo. E nella conseguente colonizzazione (questa volta non certo occidentale).