Brizzi, non è giustizia, ma gogna mediatica
Molestie nel cinema, ora tocca all'Italia col regista Brizzi. Ma è solo l’esasperazione di un andazzo che vede i resoconti giornalistici e i talk show sostituirsi alle aule di tribunale e decretare verdetti stroncatori o assolutori nei riguardi di personaggi pubblici accusati di gesti inqualificabili.
L’ultimo in ordine di tempo è il caso del regista Fausto Brizzi che, in molte testimonianze raccolte da Dino Giarrusso nella sua inchiesta per Le Iene, viene indicato come il “regista romano ultraquarantenne” accusato di molestie e abusi da diverse attrici italiane. Le donne tra di loro non si conoscono ma le storie che raccontano si assomigliano in maniera stupefacente: un appuntamento di lavoro nel suo open space per un provino in cui le scene sono romantiche o passionali, o la proposta di un massaggio per allentare la tensione, sono i pretesti per un contatto fisico che prosegue anche se le ragazze non hanno manifestato di apprezzare certi atteggiamenti. I racconti parlano del regista che si è spogliato e ha cercato di avere rapporti sessuali con le malcapitate.
Fausto Brizzi ha smentito categoricamente tramite il suo avvocato di avere mai avuto “rapporti non consenzienti o condivisi”. Sono state le centinaia di accuse di molestie sessuali a carico del produttore di Hollywood, Harvey Weinstein a scatenare l’effetto domino che ha travolto attori, produttori, fotografi, registi e politici in svariati Paesi. Con gli hashtag #MeToo e l’italiano #quellavoltache, centinaia di migliaia di donne stanno scuotendo il mondo della Rete raccontando le loro storie. Che in ben pochi casi, però, o addirittura in nessun caso, si trasformano in vere denunce penali. In verità esse restano quasi sempre solo grida dalle pagine dei giornali. In Italia, il reato di violenza sessuale è perseguibile su denuncia della presunta vittima entro sei mesi dal fatto. Periodo di tempo che cambia nel caso di minore età della presunta vittima. Nel caso di Brizzi, appare quindi che non si possa presentare un esposto, a meno che non si riesca a dimostrare che ci sono stati episodi recenti. Queste reazioni a catena sono state utili per permettere a queste donne di superare la vergogna, il senso di colpa e i timori che in genere portano le vittime a rinchiudersi in se stesse e per cambiare un sistema in cui abusi di potere e molestie sembrano essere dominanti. Ma, sul piano strettamente giudiziario, non sembrano destinate a produrre effetti.
Il paradosso di tali vicende che stanno dominando la cronaca delle ultime settimane è, per l’appunto, che il risvolto mediatico appare totalizzante. Queste denunce non vengono davvero quasi mai presentate all’autorità giudiziaria e le vittime di tali presunte violenze denunciano ai giornalisti e all’opinione pubblica gli episodi di molestie e abusi dei quali sarebbero rimaste vittime. Ma quali sono le ragioni di questa esasperata “mediatizzazione” di vicende che pure toccano l’intimità di una donna e la dignità dei rapporti di lavoro e delle relazioni sentimentali?
L’interrogativo non è ozioso perché se gli episodi fossero veri e se le denunce trovassero solo uno sbocco mediatico, saremmo di fronte all’ennesimo esempio di sostituzione della giustizia ordinaria con il giustizialismo spettacolarizzato.
Sembra riproporsi l’esasperazione dell’andazzo tipicamente italiano che vede i resoconti giornalistici e i talk show sostituirsi alle aule di tribunale e decretare verdetti stroncatori o assolutori nei riguardi di personaggi pubblici accusati di gesti inqualificabili come quello di abusare del proprio potere per costringere una donna a concedersi. Anche dando per acquisito che le denunce sono fondate e che lo scopo delle vittime non è tanto quello di ottenere risarcimenti ma solo di impedire che altre donne possano ancora subire simili trattamenti, resta il dubbio che il proscenio mediatico rappresenti uno stimolo irresistibile per le donne che sin qui hanno denunciato e che, sfruttando la gran cassa dei mezzi di informazione, lanciano un messaggio molto forte all’opinione pubblica.
In termini diversi dai casi più eclatanti di cronaca giudiziaria può valere il discorso fatto in altre circostanze sui processi mediatici. Visto che i tempi della giustizia ordinaria sono biblici e considerato che i tempi di denuncia per reati del genere sono molto stretti, le vittime di tali abusi preferiscono comunque usare l’amplificatore mediatico per prendersi la rivincita su personaggi noti o superiori gerarchici e per spezzare questa spirale fondata su un rapporto insano tra esercizio del potere da parte di taluni e successo professionale di chi si rivolge a loro. Ma non c’è il rischio che in futuro qualcuno o qualcuna utilizzi questo meccanismo perverso solo per cercare la ribalta mediatica?