DIBATTITO
Breivik e i critici del multiculturalismo
L'eco della strage di Oslo in Germania diventa il pretesto per mettere sulla graticola chi ha denunciato i limiti dell'integrazione.
Attualità
01_08_2011
Il Corriere della Sera di venerdì scorso, tramite Paolo Lepri, ha riferito parte delle azzardate dichiarazioni rilasciate da Sigmar Gabriel, il presidente del partito socialdemocratico tedesco, la SPD, durante una sua visita in Austria, a proposito dell’azione criminale compiuta da Andres Behring Breivik. Nelle sue parole c’era un chiaro accostamento tra l’ampia società tedesca che nell’ultimo anno ha letto il libro di Thilo Sarrazin dedicato al fallimento delle politiche d’integrazione in Germania (un milione e trecentomila copie vendute) e le azioni criminali di folli che proprio grazie a quella società e alle riflessioni di personalità come Sarrazin si sentirebbero legittimati a compiere atti estremi.
Peccato che Lepri non abbia riportato però quanto aggiunto da Gabriel il giorno successivo, cioè che nelle sue parole non vi era alcuna intenzione di stabilire una relazione tra le azioni violente di Oslo ed il suo compagno di partito. “Nessuno dei dibattiti svoltisi da noi o altrove”, ha precisato, “può essere preso a pretesto per azioni violente, del tipo di quelle accadute in Norvegia”. Oltre a non riportare la rettifica del presidente della SPD, Lepri, evidentemente ancor più convinto dello stesso Gabriel che esista, come lui stesso sottolinea, “una trama di contatti tra le organizzazioni che operano alla luce del sole e i fanatici che agiscono nell’ombra”, mette in relazione i cittadini aderenti al movimento “Pro Köln” con Breivik solo perché questi inviò loro tempo fa il suo “manifesto” e qualcuno fece l’azzardo di valutarlo positivamente. Colpisce la superficialità del corrispondente del Corriere, che definisce “Pro Köln” “anti-islamico”.
È bene ricordare allora che la battaglia, alla fine persa, attorno alla quale è nato quel movimento voleva impedire la costruzione della grande moschea di Colonia. “La grande moschea è una dichiarazione di guerra da parte di chi è nemico dell’integrazione”, tuonò a suo tempo Necla Kelek, la sociologa turco-tedesca che si batte da anni a difesa delle donne musulmane e collaboratrice della Frankfurter Allgemeine Zeitung, “dunque non c’entra nulla con la libertà religiosa: è un’espressione politica dell’islam turco”. Promotrice e futura proprietaria della grande moschea è infatti la Ditib (Unione Turco-Islamica per la Promozione della Religione), una realtà finanziata direttamente dal governo di Ankara (sarebbe da chiedersi come mai il Corriere anche su questo dato, in un articolo del 9 agosto 2008, preferì tacere…).
“Il progetto richiama espressamente l’ex-Basilica di Santa Sofia di Istanbul”, aggiungeva la Kelek. “a suo tempo occupata e trasformata in moschea dagli Osmani. Proporre quel modello significa dire: ecco, siamo arrivati fin qui.” Nulla di xenofobo dunque, nelle parole della Kelek, come pure negli argomenti di “Pro Köln”, che a quelle s’ispirava e s’ispira, piuttosto una valutazione di fatti che, per la natura stessa dell’islam, sono soprattutto politici, prima che religiosi.
Tornando a Sarrazin e alle sue idee, sarà utile ricordare quello che è successo un paio di settimane fa, quando, ad un anno dalla pubblicazione del suo libro La Germania distrugge se stessa (tanto discusso dai tedeschi e tuttavia pregiudizialmente non letto da Angela Merkel) il canale televisivo pubblico ZDF aveva deciso di girare un documentario sull’ex ministro delle finanze del Land di Berlino proprio per le vie di Kreuzberg, il quartiere della capitale a stragrande maggioranza turca. Accompagnato dalla giornalista Güner Balci, anch’essa turco-tedesca come la Kelek e assai critica verso i suoi connazionali che vivono in Germania, Sarrazin non si è sottratto ai duri confronti avuti al cosiddetto “mercato dei turchi”, al ristorante “Hasir e presso la sede della comunità alevitica e il 17 luglio ha pubblicato un breve resoconto su “Welt” (ignorato dal Corriere) a conferma di quanto documentato dalla ZDF: “nei mesi passati”, ha scritto tra l’altro, “non avevo avuto la sensazione di subire per strada espressioni di inimicizia, ma questa volta, davanti alle telecamere è stato diverso”.
“Razzista”, “Nazista, vattene”, queste le grida lanciate da più parti per le vie di Kreuzberg a lui destinate. Una volta entrato da “Hasir”, dove era previsto un incontro con il proprietario Ahmet Aygün, la cui famiglia possiede cinque ristoranti e un hotel quattro stelle, una donna grida da fuori: “Come residente di questo quartiere non verrò più a mangiare in questo locale, perché dopo la visita di Sarrazin, con le sue tesi, rimarrà appestato”. Dopo poco arriva il manager del ristorante: “Noi turchi siamo molto ospitali, ma credo di non poterLa servire”. L’ex banchiere e la Balci sono stati costretti a lasciare il ristorante tra le invettive dei passanti e chiedendosi come mai il manager non avesse chiamato la polizia: “Proprio questo è il problema”, commenta Sarrazin, “una volta sotto pressione quell’uomo d’affari di successo turco-tedesco ha scelto di essere leale con i provocatori del suo gruppo etnico, piuttosto che con l’ospite tedesco”.
La giornata per le vie di Kreuzberg non è proseguita meglio, visto che il consiglio della comunità alevitica si è rifiutato di incontrare Sarrazin. “Un benemerito ex senatore di Berlino che di null’altro può essere accusato se non di aver scritto un libro con cifre sgradite e relative analisi”, queste le amare parole conclusive nel suo articolo per Welt, “è stato costretto a subire mobbing e ad andarsene da quel quartiere di Berlino che dovrebbe rappresentare la punta di diamante dell’integrazione in Germania. Guai a noi se, come molti sperano, le condizioni di Kreuzberg rappresentano l’officina della Germania futura”.
Tutto questo accadeva a Berlino alcuni giorni prima dei massacri di Oslo e di Utroya. Qualcuno può davvero credere che a Sarrazin possa essere attribuita una qualche responsabilità per i crimini di Breivik?