Bossetti è già condannato alla gogna mediatica
Non anticipare per via mediatica una condanna che ancora dev’essere pronunciata in via definitiva dai giudici significa rispettare la dignità dell’imputato e condannato in primo o secondo grado. Massimo Bossetti, condannato in appello (e in attesa della Cassazione) per l'omicidio di Yara Gambirasio, per ora è vittima di una barbarie mediatica.
La conferma in secondo grado della condanna all’ergastolo comminata a Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso in modo efferato Yara Gambirasio dopo averla sequestrata e violentata, presenta delicati profili giudiziari sui quali è bene sospendere il giudizio. Quando si assiste alla limitazione della libertà personale di un essere umano non ancora giudicato colpevole in via definitiva e non si ha modo di valutare con accuratezza le prove a suo carico, bisognerebbe usare molta cautela e non tirare conclusioni affrettate.
Questo vale per la gente comune che, in modo lombrosiano, getta fin da subito la croce addosso al presunto assassino, ma vale ancora di più per il mondo dell’informazione, chiamato ad esercitare un sano discernimento prima di sbattere il cosiddetto “mostro” in prima pagina.
Nel caso di Bossetti i precedenti mediatici non sono esaltanti. Le immagini del momento della sua cattura, presso il cantiere nel quale lavorava, l’umiliazione inflittagli dai carabinieri che prima di prelevarlo lo fanno inginocchiare, a telecamere accese, rappresentano una sconfitta per la democrazia dell’informazione e per la civiltà del diritto.
I giornalisti non dovrebbero, infatti, mai dimenticare i loro principi deontologici e le cautele che quei principi impongono e suggeriscono. A cominciare dalla tutela della dignità umana, che è un diritto fondamentale sancito all’art.2 della Costituzione e che a maggior ragione deve valere per il mondo dell’informazione, chiamato a dare notizie all’opinione pubblica, amplificando inevitabilmente la portata dei fatti.
Se Bossetti dovrà passare il resto dei suoi giorni in cella lo deciderà in via definitiva la Cassazione, alla quale i suoi difensori hanno già preannunciato che faranno ricorso. Ma a prescindere da quello che sarà il verdetto definitivo, il mondo dei media ha già negato a Bossetti un diritto sacrosanto: quello di essere considerato innocente fino a sentenza definitiva.
L’art.27 della Costituzione italiana lo riconosce in modo solenne e intangibile e dunque anche i giornalisti, anziché cedere al sensazionalismo di trattare da assassino qualcuno che attende ancora l’ultima parola sulla sua libertà personale, dovrebbero, anche nell’uso del linguaggio, essere cauti e circospetti, adoperare condizionali e formule dubitative, accordare all’accusato il beneficio del dubbio.
Tanto più perché nell’aprile 2013 la Carta di Milano, prodotta dall’Ordine nazionale dei giornalisti, richiamava alla sensibilità degli addetti ai lavori la necessità di rispettare sia la presunzione di innocenza sia la funzione rieducativa della pena, anch’essa scolpita all’art.27 della nostra Carta fondamentale. Come dovrebbe tradursi questo precetto nel diritto di cronaca? Trattando Bossetti, detenuto in attesa di sentenza definitiva, e al momento sottoposto a custodia cautelare perché ritenuto pericoloso per qualcuna delle tre ragioni previste in questi casi dal nostro ordinamento giuridico (pericolo di fuga o di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove) come un sospettato di reato, già condannato nei primi due gradi di giudizio, e non come un sicuro colpevole.
Nei chiacchiericci da bar si tende a dare per scontato che anche dal Palazzaccio uscirà un verdetto di condanna per lui, ma ove non fosse così, chi risarcirebbe Bossetti delle sofferenze atroci e dei danni reputazionali e d’immagine patiti in questi anni? I media troverebbero le parole giuste per riabilitarlo e chiedergli scusa? I figli di Bossetti crederebbero al padre oppure dovrebbero vivere tutta la loro vita sapendo, tramite internet, che il padre era stato accusato di essere un assassino di una minorenne? E allora è opportuno richiamare ai giornalisti, non solo la Carta di Milano, ma anche il Codice sulla rappresentazione delle vicende giudiziarie in tv, del maggio 2009, che vieta i processi mediatici. Entrambi i documenti deontologici risultano sintetizzati nel nuovo Testo unico dei doveri del giornalista, del febbraio 2016, che peraltro introduce anche il concetto di diritto all’oblio. Per Bossetti è ancora presto per parlare di oblio, che non dev’essere un colpo di spugna sulle passate vicende giudiziarie, bensì uno stimolo costante alla corretta contestualizzazione delle notizie.
Non anticipare per via mediatica una condanna che ancora dev’essere pronunciata in via definitiva dai giudici significa rispettare la dignità dell’imputato e condannato in primo o secondo grado. Bossetti per ora è vittima di una barbarie mediatica che ha già diversi precedenti nel nostro Paese. I confini del diritto di cronaca sono ben delimitati, non solo dalla deontologia, ma dalla giurisprudenza consolidata, che invita il giornalista ad applicare il principio dell’essenzialità dell’informazione, cioè l’obbligo di pubblicare solo particolari necessari alla ricostruzione completa dei fatti, senza digressioni o esasperazioni. A prescindere da come la si pensi su Bossetti, quindi, occorre riflettere anche in questa circostanza sul cortocircuito giustizia-informazione e sulle patologie di certo giornalismo italiano.