Bonus psicologo, trionfo dello statalismo
Lockdown, Dad, smart-working: cosa pensare di un governo che da una parte si pone l'obiettivo di provocare sofferenza psichica agli italiani, e dall'altra vuole anche curarli? Perdipiù con uno strumento che sarà controproducente per la salute dei malati e per la professionalità degli psicologi.
Arriva il «bonus psicologo», proposto per la prima volta l’anno scorso dalla senatrice PD Caterina Biti e approvato all’unanimità da tutte le forze politiche. Il provvedimento è stato approvato lo scorso 16 febbraio con il decreto «milleproroghe» (il famoso «assalto alla diligenza») e salutato con entusiasmo generale. Lo stanziamento totale dovrebbe ammontare a 20 milioni di euro; metà andrà al potenziamento dei servizi pubblici; l’altra metà sarà a disposizione dei cittadini sotto forma di voucher, probabilmente dell’ammontare di 600 euro; per richiederlo, sarà sufficiente la prescrizione del medico di base. Una buona notizia? Forse; ma non mancano le criticità.
Innanzitutto, la spinta propulsiva del provvedimento è arrivata dalle nefaste conseguenze delle misure di contenimento del Covid (Didattica A Distanza, Lock-down e smart-working); ricordiamo che la Nuova Bussola è stata tra i primi e pochi media ad occuparsi di questo problema (vedi qui). Ora, considerato che queste misure hanno avuto un impatto perlomeno dubbio sull’epidemia, ma ne hanno avuto uno certo e pesante sulla salute psicologica degli italiani, non sarebbe meglio abolirle? Prevenire non è meglio che curare? Cosa si può pensare di un governo che da una parte si pone l’obiettivo di causare sofferenza psichica agli italiani (vedi qui) e dall’altra si propone di curarli?
Secondariamente, il fatto che la terapia di un paziente sia pagata da terzi (in questo caso lo stato italiano), dovrebbe far storcere il naso agli psicologi clinici. Già Freud aveva capito che, se il paziente non paga il proprio trattamento, non ne trae un gran beneficio; detto altrimenti, il trattamento psicologico beneficia chi paga. Esiste un tariffario che indica, per i diversi trattamenti, un intervallo abbastanza elastico, in modo che paziente e terapeuta possano trovare un accordo economico che soddisfi entrambi. Però è necessario non che lo psicologo sia pagato; ma che il paziente paghi il proprio trattamento.
In terzo luogo colpisce che il voucher ammonti a 500 o 600 euro. D’accordo, si tratta solo di un aiuto, ma c’è già chi si affretta a tradurre questa cifra in un numero definito di sedute: «Una visita da uno specialista, in media, ha un costo di 50 euro, per cui si stima che i 600 euro saranno sufficienti per un ciclo di 12 sedute» (vedi qui); «Il contributo per il 2022 sarà da 500 euro - questa la cifra ipotizzata - che si tradurrebbero in un pacchetto di 6-10 sedute da uno specialista» (vedi qui) . Che c’è di strano? È presto detto. Negli Stati Uniti le assicurazioni sanitarie pagano le sedute a patto che il numero degli incontri sia stabilito in anticipo (8-10) e che il trattamento sia statisticamente il più efficace per quella diagnosi. Questo significa che non è il paziente a scegliere il tipo di trattamento (insieme al terapeuta), bensì l’assicurazione; e che non è la gravità della situazione o la velocità del cambiamento a stabilirne la durata. Anche in ambito psicoterapeutico, quindi, come è accaduto per la medicina, la cura «in scienza e coscienza» viene sostituita da un protocollo (tachipirina e vigile attesa, per capirci). Se ci si attiene al protocollo, indipendentemente dall’esito del trattamento, si evitano i guai; altrimenti...
Quarto: si sta realizzando quello che è stato a lungo il sogno dell’ordine e di altri enti che regolano la professione di psicologo (vedi qui)]. Facciamo un passo indietro. Anni fa esistevano solo due facoltà (in origine, corsi di laurea) in psicologia: a Roma e a Padova. Poi si aggiunse Torino. Oggi, solo a Milano, sono una decina. Il motivo è semplice: l’autonomia delle università; anche economica. Il che vuol dire che ogni università cerca di aprire facoltà che garantiscano un elevato numero di immatricolazioni, in modo da avere più rette e quindi più denaro; e la facoltà di psicologia porta una marea di immatricolazioni. Poi, tutte queste matricole si laureano e ottengono l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo.
Cosa accade se c’è un aumento forsennato di professionisti? Che i prezzi (e la qualità) si abbassano. È quello che accade agli psicologi: molti di loro non lavorano, o accettano di essere sottopagati pur di lavorare. E qui intervengono gli ordini regionali e nazionale, l’ente assicurativo, il fondo pensionistico professionali: perché psicologi che non lavorano non pagano; e perché i professionisti si aspettano che l’ordine faccia qualcosa per risolvere il problema. L’ordine professionale è come un piccolo parlamento: ci si accede per elezione. E viene eletto chi risolve (o propone soluzioni per) i problemi. Da qualche anno, questo problema (importante e molto sentito) è stato affrontato in due modi: a) lotta alle professioni «concorrenti» più deboli, come i counsellor (non i medici…): b) tentativi di introdurre la figura dello psicologo pubblico e gratuito (come il medico, per intenderci). La seconda soluzione, quindi, consiste nel risolvere il problema della scarsa occupazione degli psicologi scaricandolo sul sistema sanitario pubblico. Ci si prova da diversi anni con lo «psicologo di base» ed ecco finalmente, grazie all’epidemia di Covid, il bonus psicologo.
Personalmente, non credo che questa (come l’altra) soluzione sia adeguata. Ci sono molti psicologi, ma è elevato anche il bisogno di assistenza psicologica. Perché domanda e offerta non si incontrano? Perché molte persone hanno, nei confronti degli psicologi, una (non ingiustificata) diffidenza. Lo psicologo è percepito come un militante ultra-progressista, un agente del processo rivoluzionario, della dissoluzione della morale tradizionale. Il problema è che questo pregiudizio è fondato. So che non è elegante, ma per un approfondimento rimando al mio Le vie della psicologia (Sugarco 2020).
Purtroppo, anziché frenare questa tendenza, cercando di recuperare la fiducia delle persone, le varie associazioni psicologiche premono ancora di più sull’acceleratore. Faccio un esempio.
Recentemente è stato proposto di revisionare il Codice deontologico degli psicologi (vedi qui). L’obiettivo era quello di aggiungere qualche schwa, la «e» rovesciata che indica la neutralità di genere. Bene, una associazione di psicologi ha proposto di modificare l’articolo 4 che impone allo psicologo di rispettare opinioni, valori e credenze del paziente. In questo modo: «occorre guidare le persone verso opinioni e credenze più congrue, consapevoli ed efficaci. Non è vietato far cambiare idea ad un nazista». O a un cattolico, per dire.
Meno ideologia, più rispetto per i pazienti e, magari, un modello antropologico più vero, probabilmente aiuterebbero i giovani psicologi più del solito intervento statalista.