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NIGERIA

Boko Haram è sconfitta, anzi no: si è solo divisa

Il presidente nigeriano annuncia la vittoria contro i feroci jihadisti di Boko Haram. Ma la guerra continua. In realtà l'organizzazione terroristica si è spaccata al suo interno. Ora una parte sostiene l'Isis, mentre i “ribelli” si sono riavvicinati ad Al Qaeda. Ma è comunque un segnale di debolezza.

Esteri 08_08_2016
Boko Haram

Il 21 luglio il ministro dell’Interno della Nigeria, Abdulrahan Dambazau, ha annunciato la fine della guerra contro Boko Haram. “Abbiamo combattuto e vinto – ha dichiarato – i jihadisti Boko Haram sono stati sconfitti, umiliati e decimati. Dobbiamo garantire la pace adesso mentre le vittime stanno tornando a casa e il governo provvede alla ricostruzione, alla riconciliazione e al loro ritorno a una vita normale”.

Forse la notizia non ha ricevuto l’attenzione che meritava oppure non si è dato sufficiente credito alle parole del ministro. Sta di fatto che il 2 agosto l’Unione Europea ha deciso uno stanziamento di 50 milioni di euro a favore della forza militare internazionale incaricata di combattere Boko Haram, forte di quasi 10.000 soldati messi a disposizione da Camerun, Ciad, Niger e Benin, oltre che dalla Nigeria. Nel comunicato congiunto diramato da Unione Europea e Unione Africana per annunciare il finanziamento, si legge tra l’altro che verranno forniti alla forza internazionale mezzi di trasporto e di comunicazione per migliorare il coordinamento delle operazioni militari e rendere più difficile a Boko Haram spostarsi da uno stato all’altro. 

Per due anni il governo nigeriano aveva dato per imminente e certa la sconfitta di Boko Haram. Muhammadu Buhari, il presidente della repubblica in carica dal maggio 2015, appena eletto aveva assicurato la vittoria dell’esercito nigeriano entro l’autunno 2015. Quel che si era ottenuto realmente, grazie soprattutto all’intervento dei militari ciadiani, era stato di sottrarre al gruppo armato le città e i territori conquistati nel 2014, dichiarati Califfato dall’agosto di quell’anno quando per la prima volta il leader jihadista Abubakar Shekau aveva dichiarato di aderire all’Isis, lo Stato Islamico, adesione poi riaffermata nel marzo del 2015.

Ma gli attentati e gli attacchi in Nigeria e nei paesi confinanti erano continuati, anche se con minore frequenza negli ultimi mesi. Almeno tre sono stati messi a segno a luglio nel solo stato nord orientale del Borno. Il 4 luglio tre donne si sono fatte esplodere in un campo profughi causando diversi feriti. L’8 luglio un attentatore suicida si è fatto saltare in aria in una moschea di Damboa uccidendo sei persone. Due giorni dopo, il 10 luglio, altre sette persone hanno perso la vita nel villaggio di Rann attaccato dai jihadisti che, come consuetudine, hanno sparato a raffica e hanno incendiato le abitazioni prima di ritirarsi. 

Proprio il 21 luglio, appena poche ore dopo la dichiarazione del ministro dell’Interno, Boko Haram ha teso un’imboscata a un convoglio militare. 19 soldati sono stati feriti e molti altri sono stati dichiarati dispersi. Il 29 luglio è toccato a un convoglio Unicef scortato da militari, attaccato e costretto a ripiegare, sospendendo la distribuzione degli aiuti alimentari e sanitari.

È sembrato quindi evidente che dichiarare vittoria era stato quanto meno prematuro così come d’altra parte parlare di impegno governativo di ricostruzione e assistenza alle vittime. Solo pochi giorni prima Medici senza frontiere aveva scoperto in un campo profughi nel nord est 24.000 sfollati abbandonati a se stessi, allo stremo, con una media di circa 30 decessi al giorno per fame e malattie e centinaia di bambini in condizioni disperate.

Un comunicato dell’Unicef del 19 luglio rivelava inoltre che quasi un quarto di milione di bambini nel Borno, uno dei tre stati della federazione nigeriana più esposti alla violenza jihadista, soffrono di forme gravi di malnutrizione e denutrizione, che migliaia di famiglie sopravvivono da mesi quasi senza acqua nè cibo e che almeno due milioni di persone sono ancora del tutto prive di assistenza. Si teme dunque una crisi umanitaria di proporzioni enormi, difficile da gestire anche se davvero la guerra fosse finita. 

Intanto però Boko Haram, lungi dall’ammettere la sconfitta, si è rifatto vivo, questa volta non con un attentato, ma tramite l’Isis che il 3 agosto ne ha presentato al mondo il nuovo leader, l’ex portavoce del gruppo, Abu Musab al-Barnawi, solo per essere smentito poche ore dopo da Abubakar Shekau in persona che ha accusato al-Barnawi di un tentato “golpe”, chiamando lui e i suoi seguaci infedeli e politesti.

Lo ha fatto con un messaggio audio di dieci minuti sia in arabo che in lingua Hausa, una delle lingue parlate in Nigeria, nel quale, pur riferendosi al fondatore dell’Isis, al Baghdadi, definendolo come altre volte “califfo”, mostra di prenderne le distanze o di essere disposto a farlo, presumibilmente per legarsi di nuovo ad al Qaida.

È in corso dunque o si è già verificata una spaccatura all’interno di Boko Haram. Non è la prima volta che il gruppo si divide, ma, da quando Abubakar Shekau ne ha assunto la guida nel 2009 alla morte del fondatore Mohammed Yusuf, si tratterebbe della frattura più grave, risultato di profonde divergenze che potrebbero anche portare a uno scontro armato tra i miliziani fedeli ai due leader.

L’esercito nigeriano interpreta la divisione come prova della debolezza di Boko Haram, davvero prossimo alla fine. Ma non tutti sono d’accordo. Al contrario, la contrapposizione potrebbe rendere Boko Haram ancora più pericoloso e imprevedibile. 

C’è da capire inoltre se la divisione avrà conseguenze per l’Isis, sotto attacco in Libia. A partire dall’agosto 2015 Boko Haram ha inviato in Libia centinaia di combattenti ben equipaggiati per aiutare il Califfato a prendere il controllo del paese.