Boicottano Israele, ma fanno licenziare 900 palestinesi
Loro boicottano Israele e le aziende insediate nei Territori, ma a rimetterci sono i palestinesi. Dopo mesi di feroce campagna da parte dell'organizzasione Bds, la SodaStream, azienda che produce macchinette per gasare l'acqua, ha chiuso i battenti e si è trasferita altrove. E 900 palestinesi hanno perso il lavoro.
Per aggirare l’embargo americano, Castro si legò mani e piedi e si consegnò all’Unione Sovietica di Kruscev, l’Onu per salvare l’Iraq di Saddam lanciò la campagna Oil for Food e il Sudafrica razzista di De Klerk , alla faccia del boicottaggio, ci mise trent’anni prima di mettere fine all’apartheid. Oggi Cuba non è più una colonia di Mosca, in Iraq non comanda più nessuno e davanti alla sede dell’ex governo razzista di Pretoria c’è una statua di Nelson Mandela alta 9 metri e pesante 4 tonnellate. Insomma, tutto è bene quel che finisce (più o meno) bene.
Non la pensano così, invece, i 900 operai palestinesi che lavoravano alla SodaStream, la celebre fabbrica israeliana di macchinette per gasare l’acqua in casa e per le bibite fai-da-te. Mandati a casa dalla sera alla mattina e senza preavviso perché l’azienda ha deciso chiudere il suo stabilimento tra Gerusalemme e Gerico, nella zona occupata, e trasferirsi nel Negev. Allettati, dicono, da 15 milioni di euro in aiuti promessi dallo Stato israeliano che vuol così far fiorire il deserto con le bollicine della soda. Ma soprattutto per mettere fine all’infausta campagna di boicottaggio internazionale lanciata dal movimento Bds (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni) che da anni organizza azioni contro Israele e le aziende collocate dei Territori. Contro SodaStream, Bds l’ha finalmente spuntata, ma a cantare vittoria non saranno certo quei 900 palestinesi e le loro famiglie rimaste senza lavoro e futuro.
Il caso SodaStream scoppiò all’inizio dell’anno, grazie all’attrice Scarlett Johansson che ne faceva la pubblicità e per questo finì nel mirino delle organizzazioni filo palestinesi e dei media liberal americani. Come il New Yorker e il New York Magazine che arrivarono a marchiarla come l’azienda delle “bollicine insanguinate”. Ma la cosa che faceva imbestialire il fronte dei boicottatori, era il fatto che la Johansson era anche la madrina di Oxfam International, una confederazione di 17 organizzazioni non governative che operano in più di cento Paesi contro povertà e ingiustizia e che nel 2005 aveva scelto la Johansson quale “ambasciatrice globale”.Intollerabile tradimento e scandalo insopportabile, che tuttavia l’attrice rispedì coraggiosamente al mittente, difendendo la scelta di fare da testimonial a SodaStream. «Sono e rimango sostenitrice della cooperazione economica e dell’interazione sociale tra un Israele democratico e la Palestina», dichiarò all’Huffington Post la bella Scarlett. «SodaStream è una società che si impegna non solo per l’ambiente, ma per la costruzione di un ponte di pace tra Israele e Palestina sostenendo lavoratori israeliani e palestinesi che lavorano fianco a fianco e ricevono pari retribuzioni, eguali benefits e uguali diritti».
Ma’aleh Adumim è una cittadina che sorge pochi chilometri a est di Gerusalemme, in Cisgiordania, ed è considerata uno dei principali blocchi di insediamenti destinati a rimanere parte di Israele in qualsiasi futuro accordo di pace con i palestinesi. Qui ha sede la fabbrica di SodaStream che impiegati 900 palestinesi con gli stessi salari dei dipendenti israeliani. SodaStream ha sempre vantato il suo lato ecologico. Non a caso, è proprio questo che causò il bando del suo primo spot creato per il Super Bowl americano del 2013. L’annuncio originale parodiava Coca Cola e Pepsi, mostrando come i consumatori, utilizzando SodaStream, non sono costretti a buttare via migliaia di bottiglie di plastica. Quell’annuncio suscitò una gran quantità di polemiche. Diventate ancora più incandescenti con il linciaggio mediatico e politico della povera Johansson, costretta a dare le dimissioni da Oxfam. Per l’azienda le cose andarono ancora peggio: progressivo crollo delle vendite, tagli alla produzione, tonfi in Borsa fino ad arrivare al martedì nero della scorsa settimana quando il titolo ha perso il 70 per cento del valore al Nasdaq.Da qui la decisione di trasferire baracca e bollicine nel più tranquillo deserto e licenziare in blocco anche i 900 palestinesi.
Come per l’azienda della acqua gasata in casa, il futuro si prospetta drammatico anche per le altre aziende che hanno impianti nei Territori. Se ieri gli ordini provenivano da Damasco, dov’era la sede operativa della Lega Araba, oggi il virus del boicottaggio sta diffondendosi attraverso fondi pensione europei, supermercati, banche, società commerciali, sindacati, cooperative alimentari e industrie. Lo scorso anno, dopo la decisione dell’Ue di escludere dai Fondi europei tali società, il ministro delle Finanze del governo israeliano, Yair Lapid, avvertì che una simile politica avrebbe messo a rischio il trenta per cento circa del volume di esportazioni verso l’Ue, pari a circa 5 miliardi di euro, e 10 mila posti di lavoro. Sono, infatti, diverse le società europee ad aver deciso negli ultimi anni di boicottare prodotti proveniente dai territori palestinesi. Tra queste la catena di supermercati tedesca Kaiser, quella britannica Coop a molte altre in Svezia, Irlanda e Spagna.
I primi risultati tangibili non hanno tardato ad arrivare: nel 2013, secondo un rapporto dell’Associated Press, le esportazioni israeliane di datteri, uva e peperoni dalla Valle della Giordania (parte dei Opt) sono diminuite del 14 per cento, l’equivalente di circa 22 milioni di euro. Nancy Kricorian, coordinatrice di Stolen Beauty, campagna dedita al boicottaggio di Ahava, società israeliana di cosmetici basata nei Territori, si vanta che i principali negozi di Ahava a New York e Londra ha dovuto chiudere dopo due anni di continue manifestazioni. La multinazionale Unilever, che produce prodotti casalinghi e per l’igiene e la pulizia, ha venduto la sua quota del 51 per cento nelle fabbriche degli insediamenti.
L’ultimo caso di boicottaggio viene dalla Deutsche Bank che ha inserito nella “lista nera”, escludendola dai suoi fondi etici, la più grande banca israeliana, l’Hapaolim Bank, accusata di avere delle attività nelle colonie. Anche il grande gruppo bancario olandese Pggm ha deciso di disinvestire per motivi etici dalle cinque banche israeliane con cui collaborava perché queste avevano uffici nelle colonie in Palestina.?Sempre a gennaio, Danske Bank, la più grande banca danese, ha inserito nella lista nera l’israeliana Hapaolim Bank, colpevole di «agire contro le regole del diritto umanitario internazionale». Anche il ministero delle Finanze della Norvegia ha deciso di escludere dai fondi pensione pubblici due aziende israeliane, Danya Cebus e Israel Investments. Stesso motivo per cui Il maggiore fondo pensionistico olandese, "Pensioenfonds Zorg en Welzijn", che ha investimenti complessivi per 97 miliardi di euro, ha svenduto quasi tutte le aziende israeliane del suo portafoglio, mentre il Consiglio Etico di quattro fondi pensione svedesi hanno chiesto a Motorola di «tirarsi fuori dai territori occupati da Israele in Cisgiordania» o avrebbero disinvestito. Ma sono solo alcuni casi di una lista ben più lunga.
«Antisemiti con panni moderni», così il premier Benjamin Netanyahu ha definito le scelte della Ue e del potere finanziario europeo, maggiori alleati dei militanti di Bds e della altre Ong che hanno fatto della lotta a Israele la loro ragiona sociale. Ieri contro i negozi marchiati con la stella gialla, oggi contro le aziende e lo stesso Stato ebraico. Una lista nera del boicottaggio che non solo vìola il libero commercio internazionale, ma è un ostacolo alla convivenza in Medio Oriente e fomenta la rinascita del razzismo. Il grande storico Raul Hilberg aveva già avvertito che il boicottaggio economico degli ebrei nel mondo degli affari e del lavoro era stato il primo passo verso la Shoah. Lo stesso boicottaggio “Raus mit Uns” (Fuori con noi) sta ora dissanguando lo Stato di Israele. L’appello nazista «Kauft nicht bei Juden» (Non comprate dagli ebrei) è tornato. Il boicottaggio di oggi ricorda il primo, nel 1933, quando i giovani tedeschi sventolavano manifesti con la scritta: «Tedeschi, difendetevi dalla propaganda ebraica sulle atrocità». Il manifesto della lobby del boicottaggio ora dice: «Europei, difendetevi dalla propaganda israeliana sulle atrocità». Dove sta la differenza?
I dirigenti dell’Autorità palestinese non hai visto di buon occhio queste campagne di boicottaggio che, nei fatti, andavano a rafforzate le ali più estreme e violente, quelle contrarie ai negoziati di pace e che perseguono l’eliminazione dello Stato di Israele. Per questo, non è da escludere che il vero obiettivo del boicottaggio alla SodaStream fosse in realtà la chiusura dello stabilimento modello di Ma’aleh Adumim. Infatti, proprio in Cisgiordania negli ultimi tempi si sono registrati tassi di crescita economica importanti e una situazione in via di normalizzazione. La stessa Autorità palestinese aveva intrapreso un percorso politico per isolare le fazioni violente (anche grazie a tassi di disoccupazione in diminuzione, oggi al 19,1%) e mettendo le basi per la crescita civile ed economica dell’area. Ma dove non ci sono miseria e disperazione non c’è spazio per la lotta armata e l’ideologia anti-semita fatica ad attecchire. I professionisti del boicottaggio lo sanno bene: qualcuno informi anche gli euro-gnomi della finanza, liberal yankee e burocrati della civilissima Europa.