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Bobby Jindal, la conversione di un conservatore indù

Dall'induismo al cattolicesimo, un percorso "doloroso", che lo ha posto in rotta di collisione con la sua famiglia. Bobby Jindal, governatore repubblicano della Louisiana, racconta il percorso della sua conversione.

Esteri 16_07_2014
Bobby Jindal

Da noi lo conoscono quattro gatti, “addetti ai lavori” compresi. Ma Pyiush Jindal, per tutti oramai “Bobby”, è uno degli uomini politici più influenti e significativi degli Stati Uniti, un vero e proprio astro nascente. Nato nel 1971 a Baton Rouge, Louisiana, viene da una famiglia indiana (come rivela il suo nome), e pure induista. Dal 2008 è il 55° governatore dello Stato federato della Louisiana, che è e resta un luogo piuttosto atipico degli Stati Uniti.

Da giovane si è diplomato in Biologia alla Brown University, di Providence, nel Rhode Island (Ivy League, per intenderci), e in Scienze Politiche al New College della prestigiosa università inglese di Oxford. Ha lavorato nel settore del managment consulting per la McKinsey & Company di New York, poi nel suo Stato natio per il deputato Repubblicano Jim McCrery e dal 1996 per il governatore, sempre Repubblicano, diventando ministro della Salute della Louisiana e nel 1999 (28enne, il più giovane di sempre) presidente del suo sistema universitario. Poi è sbarcato a Washington, dove il presidente George W. Bush Jr. lo ha nominato nel 2001 primo consigliere del ministro federale della Salute. Insomma, il classico giovane brillante che, dall’India, bagna il naso a molti rampolli dell’alta società yankee. Un’altra simile lui è Nimrata Nikki Randhaw, meglio nota come Nikki Haley, figlia d’indiani sikh dell’India, governatrice del South Carolina dal 2011 sospinta dalle ali dei “Tea Party” e protetta da Sarah Palin.

Da quando è governatore della Louisiana (dopo aver mancato quella carica nel 2003 ed essere però stato eletto deputato federale a Washington nel 2004), Jindal si è fatto un nome e una fama. Quella di gran conservatore. Di avversario del presidente Barack Obama e della sua riforma sanitaria (che giudica cattiva sul piano economico e pessima su quello morale). Di fustigatore di certi compagni di partito, quello Repubblicano, troppo assopiti. E di paladino dei “princìpi non negoziabili”, come dimostra una delle rare testimonianze della sua azione politica disponibili in italiano, il discorso pronunciato in febbraio alla Ronald Reagan Foundation and Library di Simi Valley, in California.

Nemico dell’aborto e dei “matrimoni” omosessuali, difensore a spada tratta delle libertà costituzionali americane (dalla libertà religiosa al porto d’armi), favorevole allo sbarramento dell’immigrazione clandestina e fautore dell’insegnamento critico dell’evoluzionismo nelle scuole anche sulla base del cosiddetto intelligent design (un tema che negli Stati Uniti è caldo tanto da finire spesso nelle aule parlamentari e in quelle giudiziarie), Bobby Jindal è anche, anzi soprattutto cattolico. Nella Louisiana dove i cattolici sono la denominazione religiosa più vasta (1 milione e 300mila fedeli), ma i protestanti sono il 60% (contro il 28% dei cattolici), Jindal, il governatore, è un cattolico per conversione, esito di un «viaggio dall’induismo […] graduale e doloroso».

Lui stesso ne ha raccontato alcuni particolari in un articolo pubblicato il 31 luglio 1993 sul settimanale dei gesuiti americani America, articolo in cui si domanda se l’ecumenismo abbia forse reso irrilevante la missione e ovviamente rispondendo, da buon cattolico, no.

«Sono nato negli Stati Uniti subito dopo che i miei genitori arrivarono qui dall’India», scrive Jindal. «Sono stato allevato in una rigida cultura induista, tutte le settimane frequentavo i puja (cioè le cerimonie religiose induiste) e leggevo le scritture sacre dei Veda. […] Non mi venne mai l’idea di prendere in seria considerazione una religione diversa; essere induista era un aspetto della mia identità indiana». Poi «ho cominciato a leggere la Bibbia con l’intento di sbugiardare quella fede cristiana che stavo imparando sia ad ammirare sia a disprezzare». Ma le cose non vanno sempre come gli uomini le immaginano. «Non riesco a descrivere quel che ho provato quando ho letto per la prima volta il Nuovo Testamento. Mi vedevo descritto in molte delle parabole e mi sentivo come se la Bibbia fosse stata scritta appositamente per me. Dopo avere letto tutti i libri che potei trovare sull’accuratezza storica della Bibbia e del cristianesimo, mi convinsi che nei secoli la Scrittura era rimasta sempre la stessa e che il racconto della morte di Cristo aveva convertito migliaia di persone. Eppure la mia prospettiva restava intellettuale, non spirituale».

Ebbene, prosegue Jindal, «la mia inchiesta sul cristianesimo avrebbe potuto fermarsi a livello teorico, se non fosse stato per un cortometraggio in bianco e nero. Benché la sua rappresentazione della crocifissione fosse più cruda di quella descritta da molte altre pellicole di soggetto analogo, qualcosa di quel film mi colpì profondamente. Per la prima volta immaginai sul serio cosa significa che il Figlio di Dio sia stato umiliato e persino ucciso per amore di me. Anche se ancora non mi convinse della verità di nulla, quel film mi costrinse a domandarmi se i cristiani non avessero per caso ragione. Mi resi dunque conto che se le narrazioni evangeliche fossero state vere, che se Cristo fosse stato davvero il Figlio di Dio, allora sarei stato arrogante nel rifiutare Lui e nel mettere in dubbio il dono della salvezza».

Ci vollero «ancora un due anni buoni prima del mio battesimo nella Chiesa Cattolica», ma quando questo avvenne, ai tempi della Brown University, «la mia conversione fece infuriare i miei genitori, che ancora mi debbono perdonare del tutto. […] Si accusarono di essere stati dei cattivi educatori, accusarono me di essere un figlio cattivo e accusarono i cristiani di seminare la ribellione. […]. Non vedo l’ora che venga il giorno in cui i miei genitori comprendano, rispettino e possibilmente accettino la mia fede».

Non è comune che un uomo politico tanto in vista, forse persino già proiettato ai vertici della nazione americana, si confessi così; ma in America, in Louisiana, succede anche questo. «Ciò che mi ha spinto a convertirmi», conclude il governatore «è stato però il guadagno di una fede univoca, oggettivamente vera. Se il cristianesimo fosse soltanto una delle tante religioni tutte ugualmente valide, allora i sacrifici che ho fatto, inclusa la perdita della pace familiare, non avrebbero senso. Io stavo bene con la mia fede induista e praticavo un’intensa vita di preghiera; il vuoto l’ho percepito solo gradualmente e fu allora che mi misi a resistere strenuamente alla chiamata che Dio mi stava rivolgendo da dentro la Chiesa. Sono stati la Verità e l’Amore che alla fine mi hanno costretto ad accettare Cristo come il Signore. Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. (Gv 14:6). Il sacrificio redentore di Cristo aveva provato che Dio mi amava e che mi stava innalzando a Lui».

Poche settimane fa The Washignton Post, quotodiano liberal, gli ha chiesto di Papa Francesco e della su critica al capitalismo che ha indisposto molti americani e molti cattolici. «È favorevole?», ha domandato il giornale. «Certo», ha risposto il governatore. «Sono un Repubblicano conservatore favorevole al mercato libero. Ritengo che la crescita economica migliori le cose per la gente. Ma penso anche che abbiamo delle responsabilità verso gli ultimi… Le Chiese, il governo e le istituzioni no-profit hanno un ruolo da svolgere nell’aiutare i bisognosi anche quando l’economia è solida… Penso che il Papa abbia ragione nel sottolineare le responsabilità che ognuno ha nei confronti degli altri e nell’evidenziare che Cristo ha avuto alcune cose molto radicali da dire a questo proposito». Bobby Jindal, ecco l’uomo?