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LIBERTA' RELIGIOSA/12

Birmania, la repressione all'ordine del giorno

La giunta militar-comunista colpisce la minorana cristiana. Ma anche buddisti e islamici sono perseguitati. E il Paese è squassato da mille ribellioni.

Cultura 04_06_2011
Birmania


Secondo il governo militare del Myanmar, l'ex Birmania, quella Theravada è la tradizione buddhista più diffusa nel Paese, praticata dall’ 89% della popolazione, specialmente fra bamar, rakhine, shan, mon e cinesi. Il cristianesimo è praticato dal 9,5% della popolazione, principalmente presso i kachin, i chin e i karen in ragione del lavoro missionario svolto nelle loro rispettive aree. Circa quattro quinti dei cristiani sono protestanti. L'islam, principalmente sunnita, è praticato dal 4% della popolazione, secondo il censimento del governo. Le popolazioni cristiane e musulmane sono di fronte ad una persecuzione religiosa, particolarmente evidente nella Birmania orientale, dove più di 3000 villaggi sono stati distrutti negli ultimi dieci anni.

Dopo le proteste guidate dai monaci buddisti nel 2007, la repressione contro monasteri e leader religiosi è proseguita indisturbata come pure quella contro le minoranze etniche, come i karen - in maggioranza cristiani - e i rohingya, di fede musulmana. Il Dipartimento di Stato Usa ha classificato il Myanmar come Paese «di particolare preoccupazione» per quanto concerne i diritti umani.

Lo State Peace and Development Council (Spdc) - afferma il Rapporto dell’Istituto di Diritto Pontificio “Aiuto alla Chiesa che Soffre” -, cioè la giunta al potere nel Paese asiatico, ha dato vita a un sistema politico che perpetra un dominio senza sosta sul Myanmar.

Nel mese di agosto del 2009, il governo ha lanciato un’offensiva verso i movimenti ribelli, soprattutto karen e shan, al cui interno è forte la componente cristiana. L’intento era costringerli alla resa in vista delle elezioni politiche del 2010 e a collaborare con il governo nella difesa dei confini nazionali. Il piano volto a trasformare gli indipendentisti in guardie di frontiera non si è compiuto in modo tranquillo, come auspicato. I gruppi più piccoli si sono piegati, ma quelli numerosi continuano la resistenza. Per questo il regime ha deciso di adottare la stessa tattica utilizzata in precedenza per i Karen: quella del divide et impera. La Karen National Union (Knu), il più forte movimento a livello politico, che non ha mai sottoscritto un accordo di pace, ha subito infiltrazioni da parte del regime, è stato oggetto di azioni di corruzione e infine diviso al suo interno. Il risultato è stata la nascita del Dkba nel 1994. L’acronimo sta per Democratic Karen Buddhist Army, costituito da una frangia di fuoriusciti dell’Esercito di liberazione nazionale karen (Knla), braccio armato del Knu.

Il risultato dell’offensiva d’estate è stato l’esodo “biblico” di migliaia di civili birmani, almeno 30mila secondo dati non ufficiali, che hanno varcato il confine fra Myanmar e Cina per sfuggire al conflitto in corso fra i governativi e i ribelli shan. Sono, invece, 6.500 i civili scappati per lo più in Thailandia in seguito all’inasprirsi del conflitto.

Una legge approvata nel 2009 vieta le “chiese domestiche” indipendenti, molte delle quali sono costrette all’illegalità perché il permesso per edificare luoghi religiosi è regolarmente negato. La giunta militare ha bloccato da tempo il rilascio di certificati di proprietà di terreni a organizzazioni religiose per la costruzione di chiese o luoghi di culto. La decisione ha spinto molti fedeli e pastori a riunirsi in luoghi “alternativi”, fra cui abitazioni private, che il più delle volte sono prese in affitto da terzi.

Secondo un rapporto del gruppo “Burma Campaign UK”, a gennaio 2009 le autorità hanno ordinato la chiusura di almeno 100 chiese nella sola Yangoon. Tra queste, la Wather Hope Church e la Assemblies of God Church. I pastori hanno dovuto firmare un documento in cui promettevano, pena la detenzione, di non svolgere più alcuna funzione religiosa. Funzionari del ministero Affari religiosi hanno convocato i proprietari degli edifici dove sorgevano le chiese e imposto loro di non affittare gli immobili a nessun gruppo religioso. La chiusura delle chiese domestiche rientra nella “politica religiosa” che promuove il buddismo, a scapito di altre fedi, per cementificare un’idea unitaria d’identità nazionale.

Stando a fonti protestanti, la persecuzione dei cristiani nelle cosiddette “zone di conflitto a bassa intensità” è sistematica. Il regime militare birmano è responsabile di abusi sistematici contro l’etnia Chin, a maggioranza cristiana, vittima di lavori forzati, torture e persecuzioni a sfondo confessionale. Lo denuncia Human Rights Watch, all’interno di un rapporto in cui sono contenute le testimonianze di diversi esponenti chin: essi sono vittime di abusi e violazione dei diritti di base, perpetrati dall’esercito su ordine della giunta militare al potere in Myanmar. Le principali violazioni denunciate sono: restrizioni alla libertà di movimento; confisca di terreni o denaro, sequestri di cibo e proprietà; lavoro forzato e persecuzioni di carattere confessionale.

L’organizzazione non governativa americana Physicians for Human Rights (PHR) ha registrato, nel biennio 2009-2010, oltre 3 mila incidenti di abuso su un campione di 3281 abitanti dello Stato Chin. Tra gli eventi più ricorrenti: lavoro forzato, stupri, torture, rapimenti, esecuzioni sommarie, arresti, arruolamento forzato di bambini soldato. Il 92% delle persone intervistate per la stesura del rapporto - che si intitola "La vita sotto la Giunta: prove dei crimini contro l'umanità nello stato birmano dei Chin", diffuso all’inizio di quest’anno - promosso dall’organizzazione, ha dichiarato che almeno un membro della propria famiglia è sottoposto a lavoro forzato, imposizione predisposta dalle autorità birmane. Oltre il 62% dei Chin, invece, lavorano sotto la minaccia di assalti fisici, minacce di morte ed esecuzioni.

Anche la comunità di maggioranza buddista viene colpita. La ex Birmania non ha una religione ufficiale di Stato. Il Paese è composto da molte etnie che, spesso, professano un loro proprio culto religioso. Dall’indipendenza, i governi che si sono succeduti hanno sostenuto e si sono associati con il Buddismo. Il tentativo governativo del 1961 di elevare il buddhismo a religione di Stato, è fallito per le proteste delle minoranze.

Il governo continua a infiltrarsi, più o meno apertamente, e a monitorare le riunioni e le attività di quasi tutte le organizzazioni. In particolare, ostacola sistematicamente gli sforzi del clero buddista per promuovere i diritti umani e la libertà politica e scoraggia con forza (o vieta esplicitamente) la costruzione di nuovi luoghi di culto ai gruppi religiosi di minoranza. Il regime minaccia i familiari dei religiosi che hanno preso parte alla rivolta pacifica, impone restrizioni ai viaggi dei monaci e a molti di loro vieta anche di condurre le tradizionali preghiere. Il 27 settembre 2007 la giunta militare ha ordinato la repressione del movimento dei monaci, che chiedeva solo diritti umani e maggiore democrazia nel Paese: monasteri perquisiti, monaci arrestati, molti uccisi o costretti all’esilio. Il ministero birmano per gli Affari religiosi cerca di controllare la comunità attraverso il Sangha Maha Nayaka Committee, un’organizzazione di monaci parastatale, che ha diramato l’ordine di limitare i viaggi dei monaci e impedire loro di recitare il dharma (il tradizionale discorso pubblico tenuto da un maestro buddhista, sugli insegnamenti del Buddha stesso).

A ottobre 2009, l’Alleanza di tutti i monaci buddisti (che nel 2007 aveva promosso le manifestazioni pacifiche, partite da Yangon) ha di fatto “scomunicato” il generale Than Shwe, il leader della giunta, per non aver chiesto scusa delle violenze inflitte ai monaci e alla religione buddista. Secondo dati ufficiali, oggi in Myanamr sono 400mila i monaci e in base ai dati diffusi dall’associazione Assistance Association for Political Prisoners-Burma (Aapp), con base in Thailandia, sono più di 250 i monaci rinchiusi al momento nelle carceri birmane.

Anche le violenze anti-islamiche e la stretta sorveglianza delle attività dei musulmani sono continue. I musulmani dello Stato di Rakhine e in particolare quelli della minoranza rohingya, rimangono i più colpiti: oggetto di particolare discriminazione e programmi di espropriazioni che hanno prodotto numerosi profughi nel sudest asiatico. Sono migliaia i rifugiati in Bangladesh, che rischiano di morire di fame secondo l’allarme lanciato nel 2009 da Physicians for Human Rights. Secondo l’ente di assistenza sanitaria statunitense, il governo impedisce ai profughi rohingya di ricevere cure adeguate. Il governo respinge le accuse, come ha fatto già con quelle mosse da un rapporto analogo pubblicato da Medici senza frontiere (Msf).

I rohingya sono una delle numerose minoranze etniche che costituiscono l’Unione del Myanmar. Vivono per lo più nel Rakhine, nel nord-ovest del Paese e sono fra le etnie più misere e perseguitate. Il regime militare non riconosce loro il diritto di cittadinanza, il possesso di terreni, libertà di spostamento o matrimonio senza un “permesso speciale” rilasciato dalle autorità. Decine di migliaia cercano la fuga all’estero, soprattutto in Bangladesh e Malaysia. Il Governo ha accordato a circa 28mila rohingya lo status di rifugiati, i quali vivono in un campo profughi delle Nazioni Unite a Kutupalong. Tuttavia, stime governative parlano di altri 200mila - o forse 300mila - membri della minoranza che vivono da clandestini in Bangladesh. Gli attivisti denunciano anche «arresti arbitrari, espulsioni illegali e internamenti forzati» dei musulmani rohingya, molti dei quali vivono in «prigioni a cielo aperto».