Bianche, ricche e liberal: tutte le donne della candidata presidente
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La Harris non decolla nei consensi fra i neri e gli operai. Ma anche perché alle sue spalle ha una rete di sostegno di ricchissime donne bianche e progressiste, fra cui spicca la vedova di Steve Jobs.
Un recente sondaggio del New York Times/Siena College racconta che sull’elettorato afroamericano Harris è indietro di 10 punti percentuali rispetto a Biden nel 2020.
I neri maschi propendono per Trump, cosa che stride con la narrazione della stampa pronta da anni a denunciarlo come razzista. Kamala va meglio con le donne afroamericane (83%). In tantissimi, sempre di più a dire la verità, ritengono che sia solo l’espressione di un’élite nera vicina all’aristocrazia bianca piuttosto che a proletariato e middle class nera: il campo decisivo davvero per le elezioni Usa 2024.
In effetti, dietro la barricata dem c’è una rete che protegge, finanzia e scrive l’agenda a Kamala, ed è un intreccio perfetto di donne bianchissime, spesso biondissime, ricchissime e che più liberal non si può.
Lontano dalle teorie complottiste, l’era della comunicazione ci ha insegnato che la percezione è tanto importante quanto lo stato delle cose. E le donne che accompagnano la Harris lavorano alla percezione dell’allure che oggi deve avere il Partito Democratico statunitense mentre portano avanti seriamente la politica liberal americana. Anche se raramente le vedete in prima pagina, sono quelle che impongono la “parola del giorno”. D’altronde potere è esercitare controllo sull’informazione. E far propri i mezzi di comunicazione vuol dire abbattere l’avversario.
Nella corsa alla Casa Bianca, il sostegno finanziario dei miliardari è diventato un fattore che decide molto più che in passato. Sono 80 quelli che sostengono Harris, 50 quelli che stanno con Trump. E anche qui, il fatto che più miliardari propendano per la Harris sembra l’ennesima incongruenza in una narrazione dell’ancora vicepresidente Usa per la quale Trump sostenga solo politiche favorevoli ai miliardari.
Anche perché con Kamala c’è Melinda Gates, l’ex moglie di Bill, con in dote un patrimonio di 30 miliardi di dollari. Se la loro fondazione ha sostenuto per oltre due decenni la "pianificazione familiare" - leggi aborto - e l’uguaglianza di genere, fino a diventare il volto globale del vaccino anti-Covid19, da quando è diventata l’ex signora Gates ha fondato la Pivotal Ventures per meglio fare lobbying e partecipare solo ad attività politiche di parte. Lo scopo della fondazione è proprio quello di promuovere le donne al potere e sostenere politiche LGBTQ+ e di difesa dell’aborto. Così, oltre al finanziamento all’Harris Victory Fund, Melinda ha schierato anche la sua rete di donne e l’influenza della fondazione. «Abbiamo lo stesso punto di vista», ha raccontato l’ex signora Gates mentre si batte per la nuova tendenza, il microfemminismo: cambiare la società patriarcale e sessista con piccoli gesti. Un esempio? Far parlare prima le donne durante i dibattiti. La Harris sarà portatrice del cambiamento, può scommetterci.
Con loro c’è anche Christy Walton, la nuora del fondatore di Walmart, Sam Walton. Ha promosso un’enorme raccolta fondi per la Harris oltre che per il Lincoln Project, una lobby creata solo per fermare Trump e attiva dal 2020. Al fianco di Kamala c’è poi Lynn Schusterman, nata Rothschild, che si batte per l’accettazione delle persone LGBT nella comunità ebraica e finanzia associazioni che proteggono l’accesso all’aborto in Florida e Colorado.
Kamala Harris è nata nella Bay Area, a Oakland, e in California ha costruito la sua carriera: è stata procuratrice distrettuale di San Francisco e successivamente procuratrice generale della California - per due mandati a partire dal 2010 - prima di essere eletta al Senato nel 2016.
Nel ruolo di procuratrice generale della California, in casa degli hub globali dell’innovazione tecnologica, è stato facile tessere amicizie con i grandi manager e investitori. Mentre costringeva i colossi petroliferi a pagare multe multimilionarie con l’accusa d’inquinamento, supervisionava e gestiva i rapporti con i colossi tech nel bel mezzo della loro massima espansione. Anche per questo Biden la scelse nel ticket presidenziale.
Kamala era al matrimonio dell’executive di Facebook Sean Parker, ed è diventata amica di Sheryl Sandberg, ex braccio destro di Zuckerberg a Facebook, quella, per intenderci, che è riuscita a trasformarlo in una macchina per soldi. Attivissima nel campo dei diritti delle donne, è diventata nota nell’ambiente quando nel 2014 ha lavorato alla campagna ‘ban bossy’: cancellare la parola ‘prepotente’ dall’uso corrente perché avrebbe un effetto nocivo sulle ragazze. Già al fianco di Hillary Clinton contro Trump, adesso spinge la Harris con un assegno di 1,1 milioni di dollari. Anche Katie Jacobs Stanton, che ha fondato la Moxxie Ventures, e ha ricoperto ruoli di dirigenza a Twitter, Google e Yahoo sta con quella che potrebbe diventare la prima donna presidente Usa.
E poi c’è, ovviamente, Laurene Powell Jobs. La biondissima vedova di Steve, è la più intima a Kamala tra le donne potenti al suo seguito. Tanto vicina che Harris l’ha definita parte della sua famiglia. Negli ultimi vent’anni, Laurene Jobs è stata la sua ombra. Non solo soldi, ma sostegno incondizionato. La vedova Jobs, oltre che la donna più ricca della Silicon Valley - il suo patrimonio ammonta oggi a 21,5 miliardi di dollari -, è quella più influente. Secondo il New York Times c’è sopratutto il suo intervento dietro il ritiro di Biden dalla corsa: subito dopo il disastroso dibattito di Biden dello scorso giugno, la Jobs condivise gli infelici sondaggi messi su dalla sua personale squadra di ricerca politica. E quando la convention di Chicago ha incoronato Harris sfidante di Trump, Laurene era in prima fila ad applaudire.
Nel 2004, ha fondato l’Emerson Collective, una società di filantropia e investimenti tutta concentrata a interventi su istruzione, riforma dell’immigrazione, cambiamento climatico, salute, nonché media e giornalismo, - l’organizzazione è proprietaria di maggioranza di The Atlantic. «Laurene ha un dono per l’amicizia: è tribalmente fedele», ha dichiarato al New York Times David G. Bradley che ha venduto la rivista The Atlantic all’Emerson Collective. «E Kamala Harris rientra in questa cerchia di amici». Era il 2003, quando Harris veniva eletta procuratore distrettuale di San Francisco e riceveva la prima donazione dalla signora Jobs. È dal 2017, però, che le due hanno iniziato ad apparire sempre più spesso insieme. Le abbiamo viste marciare spalla a spalla alla Marcia per le donne a Washington D.C., sostanzialmente la marcia contro Trump. E, sempre lo stesso anno, quando l’opinionista del NYT, Kara Swisher, le chiese se si sarebbe candidata alla presidenza del 2020, la Jobs con sicurezza indicò Harris seduta tra la folla e disse, «io voto per lei».
Laurene c’è sempre stata per Kamala. In ogni passaggio chiave della sua carriera, prima per la carica di procuratore a San Francisco e poi di procuratore generale dello Stato, per quella di senatrice e adesso come candidata alla presidenza, ha sempre provveduto a sostenerla, non solo economicamente. Un’ex assistente di Harris ha raccontato a Semafor che quando Laurene Jobs venne invitata da Barack Obama in un suo discorso sullo stato dell’Unione del 2012, sul suo jet privato portò anche l’amica Kamala.
Era ancora il 2017, quando la Harris neo senatrice veniva inviata a salire sul palco ad un convegno di Laurene Jobs, e pronunciava la famosa frase che poi è tanto servita alla campagna elettorale del mondo Maga, «dobbiamo essere woke, tutti dovrebbero esserlo». E chissà che il 5 novembre non sarà la Harris a farla salire sul suo palco per un posto nell’amministrazione a trazione femminile tra wokismo, riscaldamento globale e mondo queer come bandiere.