Ballin, il missionario che conobbe l'islam e spronò i "moderati" a farsi sentire
Proprio la domenica di Pasqua, in un ospedale di Roma, è morto il vescovo comboniano Camillo Ballin. Missionario in terra islamica, per sette anni nel Sudan, ha avuto modo di conoscere e studiare l'islam in tutti i suoi aspetti. Nel 2016, in un'intervista, sollecitò gli islamici moderati a uscire allo scoperto per condannare il radicalismo
Una percezione di vuoto e insieme un grande lascito per la Chiesa nel mondo arabo: questo sentimento si coglie ovunque e unanime, intrecciandosi nella preghiera di suffragio, per la morte, proprio la domenica di Pasqua in un ospedale di Roma, del vescovo comboniano Camillo Ballin. Perché missionario per vocazione ed esperienza ha impresso un segno importante nella regione, specie nella penisola araba, in Egitto e in Sudan, grazie alla sua personalità dolce e autorevole, arricchita da una solida cultura filologica e storica, da lungimirante intraprendenza accademica e da un’alacre attività pastorale. Un suo amico e corregionale, mons. Giacinto Bulos Marcuzzo, vicario per Geriusalemme del Patriarcato Latino, lo ricorda come «persona buona, fedele e responsabile e sicura».
Doti riconosciute da papa Benedetto XVI da meritargli la nomina nel 2005 a Vicario Apostolico nel Kuwait e la consacrazione a Vescovo nella cattedrale della città dedicata alla Santa Famiglia (presieduta dal cardinale Crescenzio Sepe, allora Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione). Nel 2011, ridisegnati i confini della giurisdizione ecclesiastica nella penisola araba, mons. Ballin sarà nominato, sempre da Benedetto XVI, primo Vicario Apostolico dell’Arabia settentrionale, posto cioè alla guida delle comunità cristiane dell’emirato del Bahrain., nuova sede, dell’ Arabia Saudita, Kuwait e Qatar.
Una storia personale interessante, le cui radici affondano in una famiglia cristiana del Veneto, nella quale sbocceranno anche tre vocazioni femminili: tre sorelle di Camillo, tutte suore, e un altro fratello sposato e con prole. Camillo nasce il 26 giugno del 1944, momento storico convulso, a Fontaniva, nel Brenta padovano che è parte della diocesi di Vicenza e il cui Seminario lo accoglierà. Ma avvertiti i germi dell’impegno missionario passerà nel Noviziato della Congregazione fondata dal corregionale san Daniele Combon; qui emetterà la professione perpetua nel settembre 1968, sette mesi prima della sua ordinazione sacerdotale avvenuta il 30 marzo 1969. Ben presto sarà inviato a Zahle, in Libano, per cominciare ad apprendere la lingua araba e a conoscere le tradizioni sociali e liturgiche della Cristianità orientale.
Sarà naturalmente l’esperienza di oltre 15 anni in Egitto, nel quartiere cairota di Zamalek, vice parroco e poi parroco della chiesa di san Giuseppe, a consentirgli di completare e arricchire la sua vocazione missionaria. E di manifestare il suo naturale temperamento che lo porta a “spingersi in avanti, sempre fiducioso in Dio”, fra l’altro contribuendo alla nascita di varie comunità Neocatecumenali. Seguirà nel triennio 1977-1980 una parentesi a Roma, per studiare nel prestigioso Pontificio Istituto Orientale e conseguirvi la licenza in liturgia. Sarà quindi scelto come superiore provinciale dei Comboniani e invitato a insegnare nell’ Istituto teologico del Cairo.
Negli anni Novanta, per sette anni, proseguirà l’impegno missionario nel Sudan. E qui sempre più consapevole delle sfide poste al cristianesimo dal mondo islamico e della complessità delle realtà ecclesiali, fonda il Catholic Teachers Training Center, istituto per la formazione degli insegnanti di religione nelle scuole, prezioso per la locale comunità cristiana ancor oggi; in cui padre Camillo è ricordato traduttore dell’incontronel 1993 tra papa Giovanni Paolo II e il presidente della Repubblica Omar el-Bashir. Rientrato al Cairo svilupperà il Dar Comboni for Arabic Studies, scuola superiore di lingua e cultura araba per la formazione di operatori pastorali, ottenendo il riconoscimento di “Istituto Pontificio”.
La vita in Sudan aveva offerto a padre Camillo l’opportunità di approfondire, in loco, lo studio di un importante periodo della sua storia di fine Ottocento segnata dal mahdismo, «un movimento politico di restaurazione della società islamica con venature messianiche e dalla forte impronta anti-coloniale». Guidato dal mahdi Muhammad Ahmad ibn Abd Allah, condusse dal 1881 una lunga rivolta di neri sudanesi contro il malgoverno egiziano, che quattro anni dopo fu premiata dalla conquista di Khartoum, difesa invano dal generale inglese G.C. Gordon. In seguito, e per anni, i rivoltosi condussero azioni di guerriglia, anche al confine con l’Eritrea e furono sconfitti nel 1894 a Cassala da soldati italiani.
Per l’escatologia musulmana il mahdi è “il ben guidato (da Dio)” che «deve manifestarsi alla fine del mondo o di un’era per ristabilire la purezza della fede e la giustizia in terra». La ricerca di padre Camillo Ballin, incentrata su come in quell’epoca cristiani ed ebrei custodirono la propria fede e sulla continuità delle rispettive comunità religiose, confluì nella sua tesi per il dottorato sulla stioria della Chiesa in Sudan, sempre al Pontifico Istituto Orientale; successivamente in un libro Cristo e il Mahdi , edito da Emi.
Negli ultimi quindici anni il vescovo Ballin, ricordano i Comboniani, ha servito «con realismo e perspicacia apostolica le tante comunità di battezzati cattolici – due milioni e mezzo, di cui un milione e mezzo in Arabia Saudita, priva di chiese – giunti nel suo Vicariato seguendo i flussi dell’immigrazione da lavoro e provenienti da decine di nazioni diverse, a cominciare da India e Filippine. Una cristianità multilingue e multicolore, cresciuta senza il concorso di alcuna strategia missionaria di evangelizzazione, sorta a partire da interessi vitali e concreti… L’ effetto, imprevisto e non cercato, è che nella penisola arabica non ci sono mai stati tanti cristiani come adesso (dopo i secoli di latitanza seguiti alla prima, esaltante progressione missionaria, realizzata dalla antica Chiesa d’Oriente, di ascendenza nestoriana)». Ricordano pure la stima di cui è stato circondato dalle massime autorità dell’Emirato che gli hanno concesso la cittadinanza e il terreno per la costruzione della Cattedrale, non ancora completata.
Nei suoi interventi pubblici, anche rispondendo a domande che puntavano a enfatizzare contrapposizioni tra cristianesimo e islam, mons. Ballin ha riconosciuto che nei Paesi compresi nel suo Vicariato «non ci sono persecuzioni in corso»; ha escluso di aver mai cercato di convertire un islamico al cristianesimo, e ricordato che anche in quelle terre la missione consiste «nell’imitare Gesù». In occasione del martirio delle quattro suore Missionarie della Carità trucidate il 4 marzo 2016 in Yemen dal commando di terroristi che ad Aden quel giorno avevano assaltato una casa di cura, trucidando insieme alle religiose altre 12 persone, intervistato dall ’agenzia Fides aveva guardato al massacro alla luce dell’esperienza dei Martiri che accompagna la Chiesa nel suo camminare nella storia.
E sempre quell’anno sollecitò con fermezza l’islam moderato a dire un “no” deciso al fondamentalismo . Lo spunto gli fu offerto in un'altra intervista, stavolta della Radio Vaticana, da Benedetta Capelli che gli chiedeva di commentare l’invito al dialogo e all’accoglienza dell’altro rivolto dal Papa nel suo Messaggio al Meeting di Rimini, promosso da Comunione e Liberazione. Riconobbe che il tema era «molto attuale, soprattutto in Italia, il Paese più esposto a ricevere queste persone che scappano da guerre e da situazioni umanamente estremamente difficili e quindi è importante che conserviamo in noi questo senso di fraternità, di comprensione dell’altro» Ricordò di vivere «nei Paesi arabi da 47 anni, di aver vissuto anche 10 anni in Sudan con situazioni umanamente disperate: gente che soffriva terribilmente la fame, la discriminazione sociale e religiosa …».
«Mi rendo conto, aggiunse, come queste persone, che vengono dal Sudan e adesso anche da altri Paesi, vogliano scappare da situazioni che sono veramente difficili. Tante volte mi sono chiesto: ma, io sono italiano, io ho una base sicura, ho la mia famiglia religiosa, la mia famiglia naturale… ma se io fossi uno di loro, cosa farei? Farei come loro, cioè cercherei di scappare da questa situazione per assicurare alla mia famiglia e ai miei figli un avvenire più umano, più sereno, più felice. Quindi, bisogna stare molto attenti a non lasciarci ideologizzare, politicizzare da queste situazioni umane veramente straordinarie e pesanti».
Non esitò a riconoscere che «i fondamentalisti islamici si sono impossessati della voglia di rivoluzione nel mondo arabo … che le rivoluzioni sociali sono diventate rivoluzioni fondamentaliste. Come sarà il futuro, è difficile dirlo anche perché i “moderati” non si sono mai espressi … Non hanno mai fatto una dimostrazione civica, pubblica, per dire che l’islam non è quello là. Possiamo noi convincere il mondo che l’islam non è violento, se questi “moderati” non hanno mai fatto una dimostrazione per dimostrare al mondo che quello non è il vero islam?». Mons: Ballin concludeva: «Occorre una presa di posizione molto più seria, molto più radicale, con interviste ai giornali e con prese di posizione anche politiche, con espressioni chiare, forti, per dire che quello non è il vero islam. Ma questo non è successo e mi sembra che non stia succedendo». Come era emerso nel 2010 nel Sinodo speciale dei Vescovi del Medio Oriente al quale partecipò mons. Ballin.