Attraverso il mestiere si diventa maestri
Se una persona impara bene il mestiere, quindi, cresce, passa dalla mansione del «minister» («servo», «funzionario») a quella del «magister» (ovvero «maestro»). Il ministero porta al magistero, all’attività del maestro, poiché chi ha imparato un mestiere può ora insegnarlo ad altri.
C’è una profonda sapienza nelle parole. Gli etimi dei vocaboli ci suggeriscono talvolta riflessioni a cui giungeremmo difficilmente senza la storia che è nascosta nelle pieghe della parola. Il termine «parola» deriva da «parabola», che a sua volta proviene da un verbo greco che significa «mettere a confronto, paragonare». La parola è in sé e per sé già un racconto, una storia, la rievocazione di un’avventura, di una vicenda umana, che nasconde in sé l’affermazione di un significato e di un senso.
La parola «mestiere» deriva da «ministero» (da «minus» ovvero «meno»), vocabolo che da un lato si contrappone a «magistero» (da «magis» ovvero «di più»), dall’altro ha un valore elevato, quasi sacrale, perché allude ad un compito alto e nobile, assunto quasi per vocazione.
Se una persona impara bene il mestiere, quindi, cresce, passa dalla mansione del «minister» («servo», «funzionario») a quella del «magister» (ovvero «maestro»). Il ministero porta al magistero, all’attività del maestro, poiché chi ha imparato un mestiere può ora insegnarlo ad altri.
Per comprendere meglio il profondo legame tra ministero e magistero possiamo riflettere sull’opera teatrale I promessi sposi alla prova (1984). In questa rilettura del romanzo manzoniano attraverso l’impalcatura strutturale de I sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (1921) l’autore Giovanni Testori mette a tema la necessità di un maestro nella vita, della scoperta del talento e del mestiere da svolgere nella vita.
Nella prima giornata di svolgimento dell’azione teatrale il maestro insegna ai suoi allievi a recitare la propria parte. Li introduce, quindi, al proprio mestiere: «Il mestiere! Perché il mestiere, dal latino ministerium … Ministero… Forse sbaglio. Del resto, anche se sbaglio, è ugualmente bellissimo. Mestiere uguale a ministero».
Il mestiere è come un compito che uno si assume nella vita, una responsabilità nei confronti degli altri, una sorta di missione. Ben cosciente, però, che i suoi attori/alunni si sono lasciati irretire dal pensiero dominante, il maestro dice loro:
So bene che, nella summentovata pausa, vi siete venduti, tutti e tutte, a quelle […] fandonie che han finito per togliervi, ammesso che nascendo ne abbiate mai avuto, ogni gusto, ogni senso e ogni regola di che sia il mestiere del recitante; il mestiere, ecco, del farsi, dell’essere, qui, attore; e, attore, per sempre.
Ecco, l’uomo ha perduto il gusto di vivere, di crescere e di scoprire la propria natura. Il maestro decide, allora, di reimpostare con gli attori il «problema della recita». Interviene in maniera esagerata, quasi ossessiva. Insegna agli allievi il valore della parola:
La parola redenta! Già, redenta! […] La parola che si fa ossa, carne… Pensate un po’; anzi, pensiamo, meditiamo; lei, la parola, che s’inossa, s’incarna, si fa realtà, non è forse il senso e il mistero stesso di queste assi? Il senso e il mistero mio, tuo, suo, nostro?
Il maestro si fa nuovo Adamo che rinomina tutte le cose. Nominare la realtà significa conoscerla, quindi entrare in rapporto con lei e addentrarsi nelle sue profondità, in poche parole introdursi alla realtà. L’evangelico «il verbo si fece carne» investe ogni ambito dell’esistenza e invita a recuperare un rapporto carnale e viscerale con la realtà, in un contesto culturale in cui pensiero e ideologia sembrano avere il sopravvento su tutto. È la realtà, invece, che con la sua concretezza educa, provoca, sollecita.
Il maestro lascia la libertà ai suoi attori, non li mortifica, ma li sprona a librarsi verso il cielo: «Io le ali non le spezzo! Le aiuto; a librarsi; come quelle dei falchi; o delle poiane; le rimpolpo; le ringagliardisco, io, le ali». Gli attori sempre più fanno proprie le sue direttive e iniziano a far diventare carne le parole, a renderle realtà, a far rivivere la storia.
Nella conclusione del dramma di Testori il Maestro si congeda dalla compagnia di attori con una sorta di testamento spirituale. Lascia andare i suoi allievi auspicando che possano ora loro creare nuove compagnie, diventare a loro volta maestri. Così come nella parabola esistenziale il figlio diventa a tempo opportuno padre, allo stesso modo l’allievo diventerà maestro se avrà saputo, a tempo debito, essere pienamente allievo.
Ecco allora il congedo del maestro:
Cari, cari ragazzi! Così, ecco, così, come nelle scuole d’un tempo! Anzi, di tutti i tempi! […] Voi, superata questa lunghissima prova, trarrete dal vostro amore una nuova, grande famiglia. Come attori, non solo a voi, ma a tutti, cosa si può dire, congedandosi, il vostro vecchio maestro se non che, superata questa lunghissima prova, potete andar pel mondo, costruire altrettante compagnie, diventar, ecco, voi stessi maestri… Ve n’è bisogno. E voi, adesso, siete pronti. Se, poi, nella vita o qui, sulla scena incontrerete, com’è giusto, difficoltà, dolori, ansie, problemi, battete alla sua porta. Battete con volontà, con forza, con amore. Lei, v’aprirà.
Chi ci risponderà? La speranza.
Attraverso il cammino con il maestro i ragazzi hanno, quindi, imparato il mestiere (ministero) e sono pronti a diventare ora maestri (magistero).