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NUCLEARE

Atomica nordcoreana, la minaccia non percepita

Quinto test nucleare della Corea del Nord. La reazione internazionale è il solito balletto di dichiarazioni di condanna, a cui seguirà poco o nulla, come è sempre avvenuto dall'inizio della crisi atomica in Asia orientale. Perché la minaccia dell'arma totale non è più in cima alle preoccupazioni dell'opinione pubblica. Eppure è un pericolo reale e forte oggi quanto lo era ai tempi della guerra fredda

Esteri 10_09_2016
La località del test atomico

Un terremoto di magnitudo 5.1 ha attirato l’attenzione di Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti. Si trattava di un terremoto artificiale, ben diverso dalle scosse dei sismi naturali. E’ stato provocato dall’esplosione di una testata nucleare al poligono di Pungyye-ri nel Nordest della Corea del Nord. La conferma è arrivata poco dopo dalle stesse autorità di Pyongyang, ieri mattina (ora europea): è stato eseguito con successo un test nucleare, il quinto in dieci anni per il “regime eremita” comunista. Ma il pericolo dell’atomica non preoccupa più le opinioni pubbliche occidentali, anche se è sempre più grave.

Non è ancora nota la potenza del nuovo ordigno, è comunque superiore ai 10 chilotoni (la potenza della prima bomba su Hiroshima). Il regime comunista dichiara che la tecnologia nordcoreana è già in grado di miniaturizzare la testata. Vuol dire che potrebbe essere installata su un missile e lanciata contro la Corea del Sud, il Giappone o una base americana nel Pacifico, tutti bersagli potenzialmente nel raggio d’azione dei missili della Corea del Nord. Le reazioni al test e alle dichiarazioni incredibilmente guerrafondaie del regime di Kim Jong-un sono state comprensibilmente dure. La Cina, unico vero alleato del “regno eremita” si è detta “fermamente contraria” al test. Il Giappone “protesta categoricamente” per una minaccia molto vicina. La Russia intima al regime di “finirla con questo pericoloso avventurismo e implementare senza condizioni le risoluzioni dell’Onu”, cioè la 1718, contro il primo test nucleare del 2006 e le successive risoluzioni contro il programma atomico militare. Gli Stati Uniti promettono “gravi conseguenze”, cioè “nuove sanzioni”, oltre a quelle già previste dalle risoluzioni Onu. Pollice verso, dunque, da tutti i paesi che fanno parte del gruppo di contatto diplomatico detto “sestetto”, che nei primi anni 2000 cercò di ottenere pacificamente la fine del programma nucleare della Corea del Nord.

Le cancellerie delle grandi potenze si muovono sempre allo stesso modo. Le sanzioni economiche hanno un impatto irrilevante, in un paese autarchico in cui la popolazione fa la fame poiché la priorità del governo è e resta il programma nucleare. La crisi che si è aperta ieri finirà quasi certamente come tutte le altre: con un gran balletto di dichiarazioni di condanna, nuove sanzioni economiche, la Cina che si erge a protettrice del "regno eremita", qualche passo indietro ostentato dal regime nordcoreano e infine una nuova escalation. Così è sempre stato, dal 2006 ad oggi. Nessuno pare preoccuparsi del fatto che quell’arma totale, prima o poi, potrebbe essere usata per davvero.

Questa monotonia diplomatica riflette uno scarso interesse da parte dell’opinione pubblica mondiale. L’atomica turba sempre meno il sonno alla gente. Nel 2015, il Pew Research Center effettuò un sondaggio globale sulle minacce percepite. Due riguardavano crisi almeno potenzialmente nucleari (programma atomico iraniano e crisi Usa-Russia), nessuna delle due ha ottenuto un punteggio percentuale superiore ad altre minacce, quali il terrorismo dell’Isis (temuto sopra ogni cosa nei paesi occidentali) e il riscaldamento globale (che è in cima alle preoccupazioni dei paesi africani e dell’America Latina). L’atomica è percepita come il pericolo più grave unicamente in loco. La tensione Usa-Russia è dunque vista come la maggior minaccia nei soli paesi dell’Est europeo (Polonia e Ucraina) e l’Iran nucleare nel solo Israele. Il Pew Research Center non ha neppure pensato di inserire l’atomica nordcoreana fra le minacce globali e non è una svista: in parole povere, è percepita come una minaccia solo locale.

Eppure il suo uso eventuale, anche in una guerra regionale, può dare origine a una crisi umanitaria molto peggiore di quelle affrontate sinora, Siria inclusa. Una sola bomba atomica su un’area abitata è in grado di distruggere le infrastrutture sanitarie e d’emergenza, costringendo la popolazione sopravvissuta ad ingrossare le file dei profughi. L’atomica provoca effetti chimici nel breve periodo: tutte le aree sottovento, per decine o anche centinaia di chilometri, a seconda della potenza dell’esplosione, sono avvelenate dalla pioggia di materiale radioattivo (fallout) e per almeno due settimane quelle aree non possono essere abitate, la popolazione locale deve essere evacuata in appositi rifugi anti-fallout o altrove. Infine, genera un danno biologico: tutti coloro che sono esposti all’emissione iniziale di radiazioni o assumono dosi radioattive nel fallout, subiscono una sindrome acuta da radiazioni. Infine, ma non da ultimo, c’è il rischio di escalation. Nessuno è in grado di prevedere quale sia l’impatto politico del lancio di una bomba atomica. Ma la rottura del tabù nucleare, rispettato ininterrottamente dal 1945 ad oggi, potrebbe motivare reazioni molto gravi da parte di potenze nucleari anche solo indirettamente minacciate.

Oggi il pericolo non è diminuito. Per certi versi è anche aumentato. Le più grandi potenze (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) hanno sistemi di controllo ormai ben rodati e hanno dimostrato nei decenni di saper evitare l’uso dell’atomica. Sono tutte firmatarie del Trattato di Non Proliferazione, con cui si impegnano a non aumentare i propri armamenti, a ridurli quando possibile e a non passare materiale a chi non fa parte del “club”. Ma le armi sono proliferate a livelli mai raggiunti nel periodo del bipolarismo Usa-Urss. Ci sono Paesi che hanno aderito al Trattato solo dopo la fine della guerra fredda, pur avendo già l’atomica da decenni: è il caso di Francia e Cina, che però hanno dimostrato grande responsabilità nella gestione dei loro arsenali. Poi c’è il caso di Israele, che ha l’arma nucleare almeno dalla fine degli anni ’60, ma non l’ha mai dichiarata, tantomeno pensa di aderire al Trattato. Israele, comunque, finora non ha neppure mai usato l’atomica, nemmeno quando fu invaso da Siria ed Egitto nel 1973. Ci sono India e Pakistan, che si sono dotate di un arsenale dopo la fine della guerra fredda e non hanno mai voluto ratificare il Trattato di Non Proliferazione. Infine c’è la Corea del Nord, che si è ritirata dal Trattato di Non Proliferazione nel 2001 e da allora ad oggi sta conducendo i suoi esperimenti. La situazione è pericolosa come non mai, perché nessuno conosce quali siano le “linee rosse” delle nuove piccole potenze nucleari, nessuno può dire con certezza in quali circostanze possono lanciare attacchi preventivi. Il rischio è forte in Corea del Nord, di cui non si conosce alcuna dottrina nucleare. Ma non va dimenticata la tensione India-Pakistan: quest’ultimo ha trasferito la decisione del lancio ai generali sul campo. In caso di guerra con l’India l’escalation nucleare potrebbe iniziare sin dai primi giorni di conflitto.

Ma, appunto, non sono queste le priorità delle grandi diplomazie, perché non sono queste le priorità dell’opinione pubblica. Una volta finita la contrapposizione ideologica Usa-Urss, il tema del pericolo atomico pare non scaldare più gli animi, né turbare il sonno. Per chiunque sia cresciuto nel periodo che andò dagli anni ’50 agli anni ’80, il pensiero dell’atomica è stato uno sgradevole compagno di vita, molto presente negli incubi e nelle paure collettive, nell’arte popolare e nelle manifestazioni di piazza. Dal 1989 non se parla più, perché è venuta meno la motivazione ideologica. Era quella, evidentemente, l’unica vera spinta alla sensibilizzazione.