Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Cecilia a cura di Ermes Dovico
IPOCRISIA

Assange secondo i media: eroe, spia e poi vittima

Ascolta la versione audio dell'articolo

Prima eroe e profeta, poi spia e mestatore, infine vittima. Strana la parabola di Assange, l’attivista australiano in attesa di sentenza per un’eventuale estradizione negli Usa.

Editoriali 22_02_2024
Londra, manifestazione contro l'estradizione di Assange (La Presse)

Prima eroe e profeta, poi spia e mestatore, infine vittima. Strana la parabola di Julian Assange, l’attivista australiano in carcere a Londra ed ora in attesa di sentenza per un’eventuale estradizione negli Usa. I media hanno attraversato tutta la gamma di umori nei suoi confronti, dall’amore all’odio, in modo estremamente interessato.

Nel 2010, chiunque abbia memoria mediatica ricorderà come Assange fosse visto come un eroe dell’informazione libera e un profeta di Internet. La creatura che aveva contribuito a creare sul Web, WikiLeaks, svelava crimini e segreti, raccogliendo materiale di prima mano da fonti anonime informate dei fatti. Aveva fatto scalpore un video su fatti del 2007, in un bianco e nero sgranato, ripreso dalla telecamera del mirino di un elicottero Apache in volo su Baghdad. Dalle conversazioni dei piloti, si capisce come fosse in caccia di terroristi. Individuato un gruppo di uomini, una dozzina, con indosso quel che potevano sembrare armi, il pilota chiede e ottiene il permesso di aprire il fuoco. In una sequenza drammatica, si assiste al massacro: i colpi del cannoncino anticarro falciano il gruppo, poi inseguono chi cerca di scappare e finiscono quei feriti che ancora rantolano a terra. Solo dopo si saprà che non erano terroristi, ma civili disarmati e due erano giornalisti iracheni della Reuters. L’agenzia non aveva ottenuto prove. WikiLeaks le aveva fornite tre anni dopo. Da gruppo ignoto di hacker che si occupava di spionaggio e di altri hacker, per quel video intitolato “Delitto collaterale” (Collateral murder) divenne punto di riferimento mondiale.

Il video del massacro non era l’unico: un fiume di prove di altri crimini americani, commessi in Iraq e in Afghanistan stava inondando la rete. Pochi mesi dopo, altre centinaia di migliaia di documenti comparivano senza censura: contenevano tutte le comunicazioni riservate della diplomazia americana. Dopo i “War Logs” dell’Iraq e dell’Afghanistan, scoppiò lo scandalo “CabloGate”. Molti politici alleati degli Usa, fra cui Berlusconi, Sarkozy e la Merkel, scoprirono di essere spiati da Washington. Leader alleati fuori dall’Europa lessero schede ben poco edificanti sul loro conto: pareri sprezzanti, analisi negative, minacce di cui non si erano accorti.

Per Assange iniziavano i guai: accusato di molestie sessuali dalla magistratura svedese, si era rifugiato a Londra, poi, per evitare l’estradizione, nel 2012 aveva chiesto e ottenuto asilo politico all’ambasciata dell’Ecuador. Ci rimase, in una prigionia dorata, fino al 2019. Nonostante l’accusa di molestie non fosse un toccasana per l’opinione pubblica progressista, quest’ultima lo portava ancora in palmo di mano. I War Logs e i Cablo erano stati rilanciati dall’élite della stampa internazionale, fra cui il New York Times e il The Guardian nel mondo anglosassone (La Repubblica, in Italia). A nessuno parevano seriamente interessare i dubbi etici che avevano allarmato la magistratura statunitense: identità svelate, fonti bruciate, informatori messi a rischio in zona di guerra. Era giornalismo o era spionaggio? Prevalse un’interpretazione benevola: come ai tempi dei Pentagon Files, che sul Washington Post esposero le operazioni segrete americane in Cambogia (ai tempi della Guerra del Vietnam), pubblicare documenti segreti, forniti da fonti anonime venne considerato, dai direttori di allora, come parte del lavoro legittimo del giornalista.

Però c’è segreto e segreto. E alcuni sono, a quanto pare, più segreti di altri. War Logs e CabloGate avevano danneggiato soprattutto l’amministrazione Bush, che ormai non era più al governo e subiva già la damnatio memoriae. Obama, a parte qualche imbarazzo, non ne usciva affatto male. Ma, dal suo esilio ecuadoregno, Assange diresse l’inchiesta contro Hillary Clinton, nel pieno della sua campagna elettorale presidenziale del 2016. Pubblicò documenti che dimostravano come il Comitato Nazionale dei Democratici la favorisse segretamente contro il suo rivale interno Bernie Sanders. Poi pubblicò le email del capo del suo staff, John Podesta, con tante altre prove di manipolazione politica e persino un’opera di infiltrazione dell’ambiente cattolico americano. Non fu forse l’unico elemento che causò la sconfitta di Hillary Clinton. Ma di sicuro contribuì alla vittoria di Donald Trump. Assange, da quel momento in poi, non fu più l’alfiere della libertà di espressione, ma un mestatore “al servizio dei russi”. Perché, secondo l’inchiesta del procuratore Mueller, i documenti compromettenti della Clinton, vennero forniti dall’intelligence russa. Julian Assange nega tuttora questa accusa e ha al tempo stesso, sempre mantenuto il segreto sulle fonti.

Gli stessi media liberal che lo avevano difeso e divulgato WikiLeaks, dopo il 2016 lo scaricarono e lo fecero diventare un diffusore di fake news e di teorie del complotto. Nel 2017, la campagna di WikiLeaks per esporre il cyberspionaggio della Cia non provocò il clamore degli scoop precedenti e venne addirittura spiegato come un tentativo di Assange di ritorcere le accuse di spionaggio russo. Se la sinistra non proteggeva più Assange, anche la destra non lo ha perdonato. Ed è stato proprio il Dipartimento di Giustizia dell’amministrazione Trump a considerare prioritario il suo arresto dal 2017. Due anni dopo, espulso dall’Ecuador, venne arrestato dalla polizia britannica, sotto il governo conservatore di Boris Johnson.

Dopo il suo arresto, però, Assange è diventato “vittima”. Perché ci si è resi conto che, se dovesse essere estradato negli Stati Uniti e condannato per spionaggio, qualunque giornalista di inchiesta sarebbe a rischio. Dopo questo precedente, chiunque pubblichi documenti segreti, qualsiasi autore di nuovi “Watergate” potrebbe subire la stessa accusa. E ciò spiega perché, da Amnesty International alle associazioni per la libertà di stampa, si sia creato un nuovo movimento per la sua liberazione. Sempre sulla base di una moralità a corrente alternata, variabile a seconda degli interessi che vengono colpiti di volta in volta.