Arte "sacra" a Carpi: la provocazione conta più della Verità
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La diocesi di Carpi difende a spada tratta le discusse opere di Saltini: né blasfeme né dissacranti, e chi lo dice è mosso da "pregiudizi irrispettosi". Ma i cattolici potranno almeno chiedere conto di come vengono raffigurati Cristo e la Madonna?
«L’arte di Saltini non è devozionale, difficilmente potremmo vederla in una chiesa, ma è vera arte contemporanea a soggetto religioso, ancora una volta una rarità»: così replica il comunicato della diocesi di Carpi a chi manifesta sconcerto di fronte alla mostra di Andrea Saltini intitolata Gratia Plena e ospitata presso il Museo diocesano, oltretutto qualificando come «irrispettosi» i «giudizi (o pregiudizi) secondo cui alcuni quadri esposti riproducono immagini blasfeme o dissacranti».
Se malgrado le dotte delucidazioni del comunicato il “popolo”, sempre evocato a proposito e a sproposito, vede ferito il proprio sentimento religioso, l’accusa di «irrispettosità» andrebbe rispedita al mittente (ovvero alla diocesi di Carpi), così come l’altra accusa, quella di «giudizi (o pregiudizi)». Il principale dei pregiudizi, come attestano i frutti di decenni di dialogo tra uomini di Chiesa e artisti contemporanei, privilegia a priori il nuovo, l’originale a ogni costo, la provocazione, come se ai ministri di Dio fosse stato affidato l’annuncio della Modernità più che della Verità.
Trattandosi di un evento pubblico di cui la diocesi è co-organizzatore, si trascende l’ambito della mera ricerca personale dell’artista e si entra in quello del messaggio che, proponendo quelle opere si intende trasmettere ex parte Ecclesiae. Che sembra il solito mantra sotteso a un dialogo che pare a senso unico con alcune correnti dell’arte contemporanea come nella commissione di nuovi edifici di culto, ovvero quella «deificazione dello “spirito dei tempi” che (...) ha usurpato il posto che lo Spirito Santo occupa nella vita dei cristiani»: era questo uno dei rischi evidenziati dallo storico dell’arte Hans Sedlmayr in un Memorandum sull’arte ecclesiastica cattolica indirizzato nell’ottobre 1962 ai padri conciliari (pubblicato in italiano insieme a La Rivoluzione dell’arte moderna, Cantagalli, Siena 2006). Ciò che conta è apparire al passo con i tempi: «Questo vuol dire», proseguiva Sedlmayr, «che attribuiamo un’importanza maggiore all’essere in sintonia con lo spirito dei tempi piuttosto che con quello Spirito che trascende tutti i tempi».
Vero è che si tratta di arte religiosa ma non destinata al culto né pubblico né privato («non è devozionale», ricorda la diocesi, specificando che «difficilmente potremmo vederla in una chiesa», salvo quella di Sant’Ignazio che in tal caso funge da spazio espositivo). Ma se non è devozionale tutto è lecito? Proviamo a immaginare se le opere di Saltini raffigurassero, per esempio, la regina Elisabetta II... nessuno qualificherebbe come irrispettoso il prevedibile sconcerto dei britannici senza chiedersi se i loro sentimenti siano stati in qualche misura feriti. A loro volta, i cattolici potranno almeno chiedere conto di come vengono raffigurati Cristo e la Madonna? Un Cristo “a forma di Cristo” che non si presti a equivoci sarebbe troppo banale, meglio provocare: salvo poi lamentarsi se i “provocati” reagiscono.
Quanto all’artista, si obietterà, è sincero. Se è per questo, si dice persino «da sempre attratto da quelli che molti considererebbero tradizionali principi cristiani» nell’intervista inclusa nel catalogo della mostra. Ma la sincerità delle intenzioni non sempre corrisponde alla verità di ciò che viene raffigurato. Al riguardo Sedlmayr ricorda che «ciò che è detto dipende da come è detto: questo è il motivo per cui è assolutamente impossibile esprimere, per esempio, ciò che è presente agli occhi della fede nella Seconda Persona divina o, ugualmente, nella Madre di Dio, con un’immagine formata in una qualsiasi strana forma, posto soltanto che il suo autore l’abbia etichettata come “Cristo” o come “Maria”. Non sta bene appellarsi al fatto che l’artista è soggettivamente “sincero”, perché ciò che conta in arte non è la mera sincerità ma la verità».
Dunque l’arte sacra, che sia o meno destinata alla liturgia, deve restare fissa e immutabile? Non si evolve? Anche qui siamo di fronte a un pregiudizio cronologico per non dire “cronolatrico”, anzi a due: in primo luogo riducendo lo sviluppo artistico a quella manciata di decenni che costituiscono il presente; in secondo luogo dimenticando che ci si può evolvere come pure involvere. E che duemila anni di arte cristiana hanno dimostrato che non c’è bisogno di uscire dai canoni per raffigurare le realtà sacre in infiniti modi, salvaguardandone la verità oggettiva. Il Cristo raffigurato in posa ieratica a Sant’Apollinare Nuovo o il Pantocratore del duomo di Monreale o quello di Cimabue nel duomo di Pisa è riconoscibile quanto quelli dipinti da Giotto o dal Beato Angelico o da Rubens. E lo è oggettivamente non come un “Cristo secondo me”. Quanto allo «sguardo limpido» che, secondo il comunicato diocesano, sarebbe necessario per comprendere e non fraintendere l’opera, non possiamo che concordare, anzi di più, poiché la vista umana non basta, ci vorrebbe quella dei serafini e dei cherubini. Concordiamo, altresì, sul fatto che «davanti a queste opere si può meditare»: per riuscire a vedervi Cristo è necessario compiere un atto di fede.
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