Arresti e condanne: giudici all’assalto del governo
Si avvicinano le elezioni e, puntuale certa magistratura torna a ruggire. L’ha fatto con l’inchiesta di Potenza alla vigilia del referendum anti-trivelle, lo sta facendo con il consueto tintinnio di manette (vedi arresto del sindaco di Lodi) anche in queste settimane: ieri la condanna del segretario del Pd sardo, Renato Soru (poi assolto).
Si avvicinano importanti scadenze elettorali e, puntuale come un orologio svizzero, certa magistratura torna a ruggire. L’ha fatto con l’inchiesta di Potenza alla vigilia del referendum anti-trivelle, lo sta facendo con il consueto tintinnio di manette (vedi arresto del sindaco di Lodi, Simone Uggetti per turbativa d’asta) anche in queste settimane di campagna elettorale per le amministrative. C’è da scommettere che questa nuova offensiva giudiziaria dispenserà altri colpi a sorpresa, destinati a colpire al cuore il governo.
Sebbene si ostini a respingere i sospetti di complotto ai suoi danni, Matteo Renzi sente stringersi attorno al collo il cappio delle inchieste. In tutt’Italia si contano centinaia di indagati del suo partito e qualche condanna come quella di ieri del segretario del Pd sardo, Renato Soru, a tre anni di carcere per evasione fiscale (poi assolto con sentenza dell'8 maggio 2017 della Corte d'appello di Cagliari), finisce per gettare forti sospetti sulla credibilità della classe dirigente della sinistra italiana.
Emergono alcuni elementi significativi. Anzitutto, la campagna elettorale anche questa volta ha dato la sveglia a qualche Procura ormai considerata in orbita grillina. Inoltre, la presunta diversità morale della sinistra non è più invocabile, visto e considerato che non passa giorno senza che un esponente Pd nazionale o locale non finisca “attenzionato” dalla magistratura per ipotesi di reato. Appare peraltro innegabile che una fetta consistente dei giudici italiani non vede di buon occhio le riforme renziane, teme che l’ex sindaco di Firenze possa acquisire un potere eccessivo e dettare regole insindacabili anche in tema di giustizia e, dunque, punta a indebolirlo.
Ovviamente, sono solo congetture e non ci sono prove di tutte queste presunte manovre o trame oscure ai danni dell’esecutivo e del Partito democratico su base nazionale e locale. Le regolarità che si riscontrano, però, appaiono persuasive e convincenti. E ci fanno rivivere l’accanimento che certa magistratura ha indubbiamente mostrato nei confronti della classe politica della Prima Repubblica e, successivamente, dell’ex premier Silvio Berlusconi e del suo entourage, accanimento riconosciuto con onestà intellettuale anche da molti suoi acerrimi nemici di sinistra.
Se la presenza dell’ex Cavaliere sulla scena politica ha certamente allontanato la prospettiva di una pacificazione tra potere politico e potere giudiziario, l’atteggiamento spavaldo mostrato dall’attuale presidente del Consiglio nei confronti della magistratura rischia di riportare le lancette della storia a un’epoca di aspre e laceranti contrapposizioni che speravamo di aver archiviato per sempre, o almeno per un po’. I toni di sfida usati da Renzi nei confronti delle toghe sembrano aver scatenato la furia di queste ultime, ora più che mai interessate a far fallire il percorso riformatore intrapreso dall’attuale governo.
Se il caso dell’arresto del sindaco di Lodi finisce davanti al Consiglio superiore della magistratura (Csm), con il membro laico del Pd, Giuseppe Fanfani che definisce le misure adottate nei suoi confronti «ingiustificate e comunque eccessive», vuol dire che la tempesta è davvero dietro l’angolo. É vero che Fanfani ha poi fatto marcia indietro rispetto alla minaccia iniziale di chiedere l’apertura di una pratica in Prima commissione, ma ciò non è bastato ad evitargli le critiche di sette consiglieri del Csm, che hanno parlato di «indebita interferenza nel procedimento in corso presso gli uffici giudiziari di Lodi».
Che il clima sia burrascoso lo si evince anche da un’altra frase attribuita dal quotidiano Il Foglio a un altro consigliere togato, Piergiorgio Morosini e poi smentita dal diretto interessato. «Renzi va fermato. C’è il rischio di una democrazia autoritaria. Se passa la riforma costituzionale abbinata all’Italicum, il partito di maggioranza potrà decidere da solo i membri della Consulta e del Csm di nomina parlamentare», avrebbe detto Morosini. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando non ha potuto fare altro che chiedere al vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, un incontro formale per un chiarimento. Quest’ultimo ha subito preso le distanze dalle affermazioni incriminate: «Sono inaccettabili gli attacchi a esponenti di governo e Parlamento. Noi pretendiamo rispetto per le nostre funzioni, ma per farlo dobbiamo prima di tutto assicurare rispetto ai rappresentanti dei poteri dello Stato».
Forse è azzardato paragonare l’escalation mediatico-giudiziaria di queste ore a quella degli anni di Tangentopoli, la gogna pubblica di Mario Mantovani (ex assessore alla Sanità della Regione Lombardia arrestato e scarcerato dopo alcuni mesi per un vizio formale) o di Simone Uggetti a quella dell’ex democristiano Enzo Carra. Un accostamento, però, è pertinente: traspare la tentazione di certa magistratura di difendere la democrazia con le manette, magari strizzando l’occhio a forze politiche come il Movimento Cinque Stelle, che fanno del giustizialismo un architrave del proprio progetto di Stato e di società, e contrastando gli attuali partiti di governo, “rei” di voler scardinare un incrostato e perverso sistema di potere che pone le toghe in una irragionevole posizione di supremazia sugli altri poteri.
Un conto è il controllo della legalità, che è sacrosanto in un Paese come il nostro, affetto profondamente dal virus della corruzione, che dilaga dal centro alla periferia; altro conto è la spettacolarizzazione delle inchieste, il circo mediatico-giudiziario, la gogna mediatica, tutte degenerazioni che finiscono per incrinare i delicati rapporti tra politica e magistratura, tra esigenze di giustizia e tutela dei diritti delle persone coinvolte nelle inchieste. E sovente si tratta di degenerazioni volute, per finalità non propriamente nobili, come la popolarità o la fulminea carriera di qualche toga, che sfrutta il palcoscenico mediatico con provvedimenti giudiziari a effetto, non sempre fondati sulla corretta applicazione delle leggi.
Che poi sia vero che è in atto un assedio, un’azione premeditata di certa magistratura allo scopo di disarcionare Matteo Renzi da Palazzo Chigi e dalla guida del suo partito e quindi della politica italiana lo scopriremo presto. Sarebbe l’ennesima conferma di quelle storture della nostra democrazia.